Madre terra … terra madre

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Vlora

Non mi è mai piaciuto il mare. Quella massa violenta e cupa. Quel vetro azzurro che nasconde abissi muti, insidie pennellate di colori arditi. Perché sono nato in un luogo dove i monti ti abbracciano con il loro manto caldo e ti cullano intonando una nenia di foglie e di rami.

Sono nato in un rudere incastonato fra rocce e muschio odoroso di fresco. E dall’unica finestra, ogni mattina, vedevo affacciarsi un sole timido sulla cresta scura. Quella luce polverosa e pallida sapeva scaldare il mio cuore solitario. Il profumo del latte di capra, appena munto, nella scodella sul tavolo era il mirëdita, il“buon dì”, che il mio babagjysh, mio nonno, dedicava a me ogni nuovo giorno.

Babagjysh! Babagjysh è una parola che giunge dall’esterno e ti entra dentro saltellando leggera sulle labbra. Poi la lingua si arrotola, la cattura e la ingoia per condurla al cuore. Ba-ba-giysh.

A quel tempo io e il mio babagjysh eravamo una famiglia sulla Malissia in Albania. Sì, in Shqipëria, così sia chiama la mia terra d’origine e significa “Paese delle aquile”.

Ne ho viste tante di aquile sulle mie montagne e ogni volta mi domandavo com’era vedere il mondo da lassù, con gli occhi acuti delle aquile. Chissà come si vede la mia piccola casa arroccata sul costone della collina – mi domandavo. Quella casupola fatta di pietre grigie e di legno di rovere scavata nelle rocce maculate. Quell’unico locale con due lettini, un tavolo e il camino quasi sempre acceso, doveva apparire alle aquile come un piccolo nido a loro familiare, e noi due come due uccelli spauriti.

Addossata, sul fianco destro della casa, c’era la stalla. Un piccolo capanno improvvisato realizzato dal mio babagjysh con vecchie assi di legno. Lì dentro si rifugiavano quattro capre e due galline: l’unica ricchezza di babagjysh.

Lui mi diceva sempre – Se vuoi vivere bene, devi far vivere bene le capre. Va’, portale a spasso! – e io eseguivo. Portavo al pascolo le capre tutti i giorni. Percorrevo un sentiero accidentato per giungere ad una piccola radura attraversata da un torrente impetuoso. Mi sedevo su una pietra sull’argine del fiume e ascoltavo la voce prepotente delle acque. Consumavo il mio solito pasto, pane e formaggio, e aspettavo che il sole tramontasse prima di tornare a casa insieme al mio cane, che chiamavo qeni, cane, perché quando c’è povertà non si sprecano neanche le parole.

Quando la luce colorava di azzurro il profilo dei monti, tornavo a casa e lungo la via vedevo il fumo del camino disegnare volute nivee nel cielo bruno e sentivo il profumo della minzetra uligne me bath, la frittata con fave secche e olive che il mio babagjysh preparava. Quell’effluvio, unito all’odore intenso di legna bruciata e di stallatico, marcava la nostra dimora ed io l’avrei riconosciuta fra mille.

Non so che mestiere facesse il mio babagjysh e se ha mai praticato un mestiere. E non so con quali mezzi vivessimo allora e se per vivere a quel modo servissero dei soldi. So solo che di tanto in tanto babagjysh scendeva al villaggio, a piedi con il suo bastone attraversando prima il bosco e poi la lunga e tortuosa mulattiera, per aiutare Donjet e la sua famiglia a impastare il pane o a uccidere il maiale. Per questo motivo in casa nostra non mancava il pane e il fërgesë, un piatto composto da carne macinata di maiale fritta e servita con formaggio e aglio, nei giorni di festa, i quali erano uguali agli altri giorni tranne il fatto che babagjysh diceva che era festa e che la nostra pietanza subiva variazioni.

La mia gjyshe, mia nonna, era morta, prima che io nascessi, di una morte sconosciuta, e babagjysh era rimasto solo con la sua unica figlia: Serina, la mia nënë, mia madre.

Serina, aveva sposato un uomo che babagjysh definiva una “testa calda” perché era un sovversivo contro il regime comunista di Enver Hoxha e con mia madre non aveva mai vissuto, ad accezione di quel frammento di tempo utile a concepirmi, poi chissà dove lo portarono le sue idee di libertà. C’era chi diceva che era prigioniero… o che era morto…o che era combattente nella ex Jugoslavia …Certo è che nënë aveva pauradella dittatura, temeva ripercussioni e un giorno decise di partire anche lei. Mi schioccò un bacio sulla fronte dicendomi – Paç fat ! – Buona fortuna!

Il giorno in cui mia madre mi abbandonò sparirono altre due persone del villaggio. Tutti, si vociferava, fuggiti in Italia.

L’Italia, come l’America, dispensatrice di sogni.

Alcuni anni dopo Donjet salì su per la montagna per consegnarci una lettera proveniente proprio dal “Bel Paese”: era di mia madre. Babagjysh leggeva che la mia nënë lavorava come cameriera in un locale di Bari, una calda città affacciata su un mare cobalto proprio di fronte alla nostra “Terra delle aquile”. Leggeva che nelle giornate luminose la mia nënë si recava sulla riva per vedere all’orizzonte l’Albania. Leggeva che la mia nënë riusciva a scorgere il contorno delle vette della Malissia e che, a volte, riusciva perfino a discernere la nostra casa posata sui rupi. Leggeva che in quei giorni la mia nënë mi salutava con la mano e mi inviava baci trainati dal vento. Non so se quelle parole fossero davvero impresse sulla carta di quella missiva. Non so se quella lettera provenisse davvero dall’Italia e non so nemmeno se babagjysh conoscesse i misteri della lettura. So solo che da quel giorno, con il sole con la pioggia con la neve e con il maestrale, mi arrampicavo sui colli, sulle pietre più impervie e aguzze per urlare a mia madre – Mirëmëngjes nënë ! – Buongiorno madre!

Una mattina babagjysh mi disse: – Oggi diventerai uomo.

Avevo otto anni il giorno in cui babagjysh decise di separarsi da me.

Ci incamminammo giù per il sentiero verso il villaggio e mentre scendevamo io percepivo il pericolo incombente, come i gatti prima di essere abbandonati. Babagjysh devo portare le capre al pascolo! Se non escono non fanno il latte! – dicevo, ma babagjysh non dava voce ai suoi pensieri e non dava risposta alle mie parole.

A casa di Donjet c’era un giovane uomo proveniente da un altro villaggio, diretto in Italia e che aveva il compito di portarmi con lui. Io avrei dovuto essere felice, avrei rivisto la mia nënë e invece piangevo di un pianto inconsolabile, tanto che babagjysh fu costretto a prendermi a schiaffi.

Budella! Budella! Supido! Stupido! – gridava – Vuoi fare la mia fine? In un paese senza libertà non ci può essere ricchezza e in un paese senza cultura non ci può essere futuro. Va’, e non ti voltare indietro. Questo posto non merita rimpianti e non pensare a me che sono vecchio. Pensa a te e ricordati Zoti vonon por nuk harron! Dio tarda ma non dimentica!

Era la prima volta che babagjysh pronunciava il nome di Dio. Non era mai entrata la preghiera in casa nostra perché prima, quando c’era il regime, era vietato pregare, poi la gente si era dimenticata e aveva lasciato i Santi fuori dalla porta di casa.

Camminammo per giorni, io e Mikan, attraversando tutta l’Albania da nord a sud a piedi o con qualche passaggio di fortuna su furgoni iperaffollati. Conobbi mondi a me estranei. Vidi miseria, disperazione, fame, dolore, fucili, polizia, morti, mutilati, ladri, donne, vecchi, bambini. Dormimmo di giorno nascosti in bunker abbandonati e pieni di escrementi di ogni genere e viaggiammo di notte seguendo rotaie infinite.

A quel tempo non c’era dittatura ma era comunque vietato lasciare il Paese.

Poi, lo vidi.

Eravamo appena scesi da un camion e ci eravamo nascosti dietro un casolare disabitato ad aspettare. Prima ne sentii l’odore forte che mi bruciava le narici, sembrava il piscio di un animale di grossa taglia. Poi, quando una luce in lontananza iniziò ad accendersi e a spegnesi ad intermittenza, Mikan mi afferrò per la maglia e mi trascinò fra rovi proprio di fronte a lui.

Era immenso, cupo, e tossiva con una voce roca da far paura. Cos’è? – domandai.

-Budella, è il mare!

In quel momento dai cespugli uscirono centinaia di ombre, corpi bui che si spingevano e scontravano imprecando. Salimmo tutti su una barca che ci portò al largo dove braccia e mani ci afferrarono per accoglierci su un grosso peschereccio sgangherato.

Mi voltai verso la spiaggia e con lo sguardo abbracciai la mia Shqipëria perché sentivo che da quel viaggio non avrei più fatto ritorno. Non avrei più rivisto il ventre gonfio e rugoso delle mie montagne e non avrei più sentito il fiato fresco dei boschi soffiarmi sulla ciglia come faceva il mio babagjysh quando piangevo: fffffff…

All’alba una terra dal ventre piatto mi attendeva. Forse. O forse la culla perenne degli abissi muti del mare.

Nel 1991 iniziarono i primi sbarchi di albanesi sulle coste pugliesi e da quella data per oltre tre anni la Puglia fu terra di speranza, di pace, di libertà e di fratellanza. Una moltitudine di giovani volontari accolse per un lungo periodo i fratelli albanesi portando loro cibo, abiti e un caloroso benvenuto.

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