Paise miu, un amore diviso tra paure e coraggio

0
143
Caspar David Friedrich, viandante in un mare di nebbia (1818)

Se PaiseMiu costituisce il titolo della testata del nostro giornale di Notizie & Cultura Salentina, nella forma Paise miu, anche per i non salentini, ha un significato ben chiaro.

Allora quel Dove eravamo rimasti? – citando il titolo di un recente articolo del direttore del giornale (23 luglio u.s.) – altro non è, scrive Antonio Soleti, che un «riprendere un percorso interrotto», ove ‘riprendere’, in questo contesto, significa non solo ripartire da qualcosa che si è spezzato ma anche tornare indietro attraverso i ricordi, le proprie radici e, ove necessario, ‘riappacificazione’ con se stessi e/o con gli altri.

A distanza di trent’anni, una mia amica siciliana, avendo scelto di vivere a Firenze, come un refrain riferisce che «solo per essere andata via dalla mia terra, mi sento in colpa». Tuttavia, se consideriamo i giovani costretti non solo a lasciare il proprio paese di origine, ma anche ad abbandonare l’Italia per trovare un lavoro o per una vita più dignitosa, il senso di colpa dovrebbe averlo la terra che li ha generati.

Il problema si crea nell’abbandono, poiché si interrompe un qualcosa, per alcuni aspetti, paragonabile metaforicamente alla rottura del cordone ombelicale. Si lasciano affetti, cose e soprattutto viene a mancare il passato che, pur non sempre positivo e bello, fa comunque parte della nostra storia e rappresenta le radici. Pensiamo, solo per fare un esempio, a cosa potrebbe succedere nello sradicare un albero o addirittura reciderne le radici.

L’allontanarsi dal proprio paese implica anche il rischio di diventare ‘viandanti’ che, in una certa ottica e cultura, significa doversi staccare dal proprio mondo con rischi di traumi e di dolore per ciò che si è lasciato. Risulta decisamente migliore il trasferimento o il ‘viaggio’ volto a rientrare nella comunità di appartenenza, certi che la propria casa e la propria terra costituiscano il rifugio ideale. D’altronde anche Ulisse farà di tutto per ritornare alla sua Itaca e ai propri affetti familiari e il vecchio adagio: «Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia, non sa quel che trova» è un monito che non ci scrolliamo più di dosso.

Alla luce di ciò, in qualche modo, probabilmente, riusciamo a spiegare, in chi ha dovuto e/o ha voluto lasciare la propria terra, il riaffiorare prepotente della memoria, lasciando prendere il sopravvento alla nostalgia.

E se avesse ragione Seneca nel ricordare che «non sono nato per un solo cantuccio, la mia patria è il mondo intero»?

Andar via significa ‘interrompere’ qualcosa, però è anche vero che chi si allontana dal proprio mondo può arricchirsi dall’ esperienza di vita e proiettarsi nella sfera dell’evoluzione.

Inoltre va considerato che non sempre è vero che allontanarsi e/ o lasciare la propria terra possa risolvere problemi di natura psicologica o di altro genere in quanto, già nella corrispondenza tra Lucilio e Seneca, quest’ultimo – appreso che i viaggi dell’amico non erano serviti a mitigare la sua tristezza – risponde: «Lucilio, devi cambiare d’animo, non di cielo» e poi, citando una riflessione di Socrate: «perché ti stupisci se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso? Ti incalza il medesimo motivo che ti ha spinto fuori di casa, lontano».

Andare oltre al concetto di viaggio, inteso come cammino verso un luogo reale e fisico, può aiutare a realizzare un’esperienza più totalizzante simile a quella del Wanderer, convinti, come dice Wotan: «Chi della mia lancia/teme la punta, /mai non traversi il fuoco!» (finale del Die Walküre di Richard Wagner).