«Puesia. Pane friscu te sciurnata»: quando il vernacolo diventa Arte.

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PuesiaTrepuzzi (Le) – Immaginiamo una tavola accuratamente imbandita a base di impegni quotidiani, appuntamenti lavorativi e doveri familiari. Immaginiamo il profumo dell’affetto e il calore di un gesto amoroso, intermezzati da giorni di “magra” in cui le uniche cose che assaporiamo sono l’ansia e la tristezza di alcuni frammenti di vita. Ebbene, che pranzo sarebbe mai questo senza il giusto companatico? «Puesia. Pane friscu te sciurnata», è questo il titolo della raccolta di poesie in vernacolo  presentata nel tardo pomeriggio di ieri dall’autore Carlo Greco presso la libreria fanny di Trepuzzi.

Una poesia informale la sua, che affoga beata in un bicchiere di vino tra amici, in un nostalgico racconto di un nonno, in uno sguardo di intesa tra giovani amanti o vecchi amati, in un dì di festa che unisce tutti attorno ad un camino. E così «Papà Isaia», che ormai non c’è più, rinasce in un sonetto che rende il suo amorevole sguardo e la sua presenza immortali, tanto che la sera di Natale siede a tavola tra i suoi figli come il più gradito e inatteso commensale.

«Una delle bellezze del nostro dialetto – spiega l’autore conversando con la Dott.ssa  Raffaella Miglietta – è che un termine, una stessa parola, può raccogliere in sé mille significati concreti, astratti, simbolici o metaforici. Ma c’è sempre una differenza tra il vernacolo e il dialetto», e il suo è proprio un gioco “vernacolare” che, con abile padronanza della metrica, è in grado di passare dalla tradizionale poesia al più frivolo sonetto. Cosa accomuni la sua poesia alle auliche composizioni della tradizione letteraria italiana è difficile da dire, eppure sembra che riecheggi nei suoi versi l’eco della sensibilità del Leopardi solitario osservatore, l’entusiasta ed inesauribile passione naturalista dannunziana e, perché no, qualche chicca stilistica del buon vecchio Montale. Il tutto senza pretese, è chiaro, cosicché la sua «A Silvia», pur non  avendo nulla dell’anelato Amore leopardiano, celebra pur sempre un affetto profondo, quello  per la nuora che per ogni suocero diventa ben presto «figghia adorata». Ma la sua difesa e stima della donna non si esaurisce qui: nel suo sonetto «Mo su tant’anni», i giorni e i mesi che trascorrono inesorabili non impediscono all’autore di ritrovare le vecchie fantasie verso l’amata e «lu core arde comu nna fiata», e non è l’unico se si considera quel pizzico di sana invidia che sorge spontaneo davanti ad una moglie così fortunata. Ed ecco che la poesia è ovunque: in un’intramontabile armonia coniugale, nella snervante attesa che un figlio adolescente rientri a casa e  nel sorriso spensierato di un nipote «secunnu fiuriceddhru» nel giardino della vita.

Gli affetti familiari non sono però l’unico tema trattato da Carlo. Leggendo «L’incantu te la nie» sembra quasi di sentire fuori dalla finestra il ticchettio della dannunziana « Pioggia nel pineto, così come i versi de «Lu ientu Marzulinu» sono in grado di screpolare le mani e disordinare i capelli “in un soffio di tempo”, per concludere con «L’autunnu», e la pagina profuma magicamente di mosto, di foglie secche appena calpestate, di quel sole che scalda senza mai bruciare.

Carlo ha un sorriso spensierato e nei suoi versi una sola certezza: in ogni dolore, anche il più intenso, c’è sempre qualcosa in grado di dare sollievo.

E come avrebbe detto Neruda, se solo fosse stato salentino «La poesia ede n’attu de pace. La pace face lu poeta comu la farina face lu pane!».

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