Titti

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La cucina è stretta, piena e sporca.
Mobili presi dallo sfascio e riadattati alla meno peggio.
Un’unica luce pende da un lampadario a campana, una specie di cupola in ferro dove la polvere e i vapori sono stretti da tempo immemore in un abbraccio ormai indissolubile.
Una grande finestra rende la stanza luminosa e porta su un balcone microscopico utile alla casa quanto una bombola d’ossigeno a un moribondo.

Titti trascorre la sua esistenza in quella casa che rispecchia l’animo suo, non più terreno di sogni e poesia, ma vita amara da randagio rassegnato e prigioniero di un canile indecoroso, consapevole dell’immonda, eterna prigionia.
La voce è rauca, frutto di corde vocali strapazzate da decenni di sigarette di pessima fattura.
Quella voce le serve ancora, le serve per ridere.
Di tanto in tanto, tra una parolaccia e l’altra, ride di sé, delle sue disillusioni e delle lacrime e del sangue.
Ride sguaiatamente, come uno scaricatore ubriaco alla taverna del porto; ride come un’indemoniata che non ha paura delle sue paure; ride come una stupida sdentata senza freni inibitori; ride della sua giovinezza fallita e finita; e poi piange, mette su la musica e vola. Vola, piange, ricorda e trema.
Trema come una bimba assalita dal terrore, come un drogato in crisi d’astinenza e le note la sollevano e le riportano gli odori indimenticabili di quei pomeriggi tiepidi e di quel pezzo di vita trascorsa nell’innocenza eterea degli incontri con le amiche, in un tripudio di parole maliziose e pure, parole che disegnavano progetti utopistici e così vicini che già te li vedevi scorrere negli occhi neanche fossero stati reali.
Titti è sola come me, come tutti.
Siamo tutti soli. Ma lei di più.
Le sue ossa solide sono diventate di cartone, si è ristretta, si è inclinata, si è abbassata, ha perso i denti ma ci ha guadagnato tante rughe e capelli bianchi che basterebbero a disegnare su un mappamondo gigante l’idrografia della terra completa di affluenti.
Titti del mio cuore dove sei?
Dove sei bambina mia?
Vaffanculo Titti e vacci veloce, in discesa libera!
Oppure cerca una mano, cercala col sorriso che altro non hai e non pensare alle tue gengive vuote, ti ricordi quanto eri bella da bambina? Te lo ricordi tuo padre fiero come un re, quando ti prendeva per mano e ti portava a fare un giro su quell’unica giostra in quel tuo paese vecchio da sempre?
Te la ricordi tua madre che ti pettinava come fossi una bambola e ti riempiva di baci e carezze da perenne innamorata?
Dai Titti, sorridi, ti prego.
Apri i tuoi occhi e sorridi.
Ma Titti è tanto stanca, abbraccia il suo gattino di peluche e piomba nell’oblio di un sonno ignorante e sgombro, come se si tuffasse nel mare.

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