Come ogni anno si ritorna a parlare di “Giornata della Memoria” e “Giornata del Ricordo”, e quindi come è d’uopo sui social cominciano a circolare foto dei campi di concentramento e delle foibe. Ma il voler imporre una visione della storia attraverso decreti legge, finisce solo per avallare uno scorretto uso politico della stessa e di fatto sono state create giornate “compensative” per non scontentare nessuno.
Si celebra oggi la giornata della memoria, ed i quindici giorni che separano il 27 Gennaio dal 10 Febbraio, si distinguono in Italia per racchiudere al proprio interno, una narrazione storica biforcata con memorie a tratti inconciliabili che non fanno altro che dare l’idea di come, aldilà delle apparenze e dei luoghi comuni, il nostro sia un paese ancora abbastanza lontano dall’avere un’unica auto-rappresentazione della propria storia.
Purtroppo queste due ricorrenze passano pressoché inosservate agli occhi del grande pubblico non specializzato, nonostante da dieci anni, ospitino le celebrazioni per le vittime dei campi di concentramento nazista (la “Giornate della Memoria” del 27 Gennaio) e per le vittime delle foibe istriane ( la “Giornata del Ricordo” del 10 Febbraio). Pur con il doveroso rispetto per tutte le vite innocenti strappate in quei contesti, non ci si può esimere dal formulare alcune riflessioni in merito.
La Giornata della Memoria, che rievoca l’ingresso dell’Armata Rossa nell’inferno di Auschwitz, sembra ormai essersi trasformata nell’ennesima legittimazione dell’esistenza dello stato d’Israele.
Trascurando, tanto gli altri milioni di vittime (antifascisti, malati di mente, omosessuali, zingari, slavi e handicappati), trattati quasi come vittime di serie B, quanto le continue infrazioni da parte di Israele delle risoluzioni ONU, che fanno inorridire chi conosce e studia le pratiche criminali di discriminazione che subiscono i palestinesi. E’ proprio la condotta di Israele e l’apartheid applicata, con tanto di muro in Cisgiordiania, a fare interrogare su come sia possibile che proprio il popolo che ha sofferto più di qualunque altro, subendo discriminazioni costantemente in ogni epoca storica, sia oggi capace di comportarsi da carnefice ed occupante nei confronti di un altro popolo.
Si assiste, di fatti, ad una vera e propria sigillatura della discussione storica: da un lato si etichetta ogni argomentazione simile come professione di antisemitismo, volendo gettare volutamente confusione tra il sionismo e lo stesso semitismo. Inoltre, si sposa acriticamente la tesi della follia di una singola persona, senza possibilità di sviluppare altre possibili interpretazioni o chiavi di lettura alternative, quali ad esempio i comprovati, e mai troppo affondo indagati, contatti tra i sionisti ed i nazisti, evidentemente una pagina troppo scomoda per venire analizzata e studiata in maniera adeguata; ma anche l’adesione del popolo tedesco al delirio hitleriano.
Il fatto che poi nel nostro paese a soli quindici giorni di distanza, il 10 Febbraio, venga celebrata la “Giornata del Ricordo”; ha di fatto reso impossibile ogni riflessione storiografica, facendo prevalere la dimensione della tribuna politica in cui il passato viene usato come una clava da brandire per colpire l’avversario politico e legittimare il proprio operato.
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Basti pensare che proprio l’argomento foibe fu uno dei temi caldi della campagna elettorale del 2008, con un centrosinistra in evidente difficoltà sull’argomento dilaniato dalle divisioni interne. Così da un lato troviamo i più moderati, in evidente furore revanscista, intenti rivisitare la propria storia politica appiattendosi sulle posizioni più reazionarie all’interno del dibattito storico ( tanto sulle foibe , quanto sulla riabilitazione dei “Ragazzi di Salò”, o sul Triangolo Rosso”) ; dall’altro invece troviamo chi, di contro, pur in larga minoranza, provava a far valere le proprie ragioni storiche, che poi sarebbero quelle di chiunque si richiami ad una lotta partigiana sinceramente internazionalista.
Invece, all’apparenza innocente, la scelta del 10 Febbraio, nasconde delle controindicazioni.
Infatti, si tratta della firma del Trattato di Parigi del 1947 da parte dell’Italia, pertanto tale scelta, dava una luce totalmente diversa, poiché in questo modo si rischiava ( o forse, per qualcuno sarebbe più opportuno scrivere, si tentava) di porre sotto accusa il Trattato stesso in cui l’Italia era chiamata a rendere conto dei misfatti fascisti e della partecipazione attiva alla più spaventosa carneficina della storia. Sulla veridicità o meno di questo rischio, basta vedere gli approdi successivi del dibattito pubblico nazionale, in cui sempre più spesso si è cercato di criminalizzare tanto la resistenza jugoslava, quanto quella italiana a guida comunista, con l’ormai trita e ritrita formula della “doppia obbedienza” (“all’Italia ed a Stalin”) e con la parificazione di fatto tra chi i nazisti li aveva combattuti con sforzi e sacrifici immani, e chi con gli stessi ci collaborava essendone alle dirette dipendenze ( ci sarebbero una miriade di esempi da fare, ma mi limiterò, ad esempio, a ricordare il conferimento di una medaglia al valore per l’ultimo Prefetto fascista di Zara Vincenzo Serrentino).
Non può meravigliare, in questo clima avvelenato, la legittimità acquistata dalle forze dell’estrema destra, proprio grazie a questo argomento che li ha visto spesso e volentieri in simbiosi con elementi del centrodestra che dovrebbero (almeno nelle intenzioni) essere più moderati, ma che non si sono rivelati tali, partecipando anche a contestazioni violente, o nel migliore dei casi, avviando un vero e proprio linciaggio mediatico, come quello di cui è costantemente vittima una ricercatrice, Alessandra Kersevan, che solo perché non vuole adeguarsi al canovaccio, viene tacciata di negazionismo, proprio come quegli storici ( o presunti tali) che negano l’esistenza della Shoah, a voler rafforzare quel legame a doppio filo tra le due date nell’immaginario collettivo nazionale.
Purtroppo in certi casi, una bugia ripetute tante volte diventa verità, uno di questi casi è proprio quello della rilettura storica di certi avvenimenti, che raramente avviene in maniera serena e scientifica, ma che spesso si piega a ragioni di contingenza politica, con l’aggravante delle tragiche condizioni in cui versa la ricerca, sempre di più alla mercè di investitori privati, non sempre interessati alla correttezza delle stesse ricerche.
Bisognerebbe, pertanto, rendersi conto che la storia non si può fare con ricordi selezionati calati dall’alto, ma con una valorizzazione costante dei lavori prodotti dallo studio serio, dall’onestà intellettuale e dal rigore storico, per impedire che il sapere storico diventi una sorta di supermercato in cui chi voglia manipolare la realtà possa assemblarne un’altra distante dalla realtà, e connivente col vecchio, ma sempre valido adagio, secondo cui chi controlla il passato, controlla il presente, e purtroppo probabilmente anche il futuro.