Conclusa a Lecce la residenza artistica di Afshin Varjavandi: “Per me la danza è la sintesi di tutti i linguaggi”

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Incontriamo Afshin Varjavandi, insegnante, coreografo, danzatore e performer iraniano, al termine dello spettacolo “Mohabbàt (dall’Iran)”, che si è svolto l’11 febbraio nella sede di Astràgali Teatro, a Lecce, a conclusione della residenza artistica dall’1 al 9 febbraio scorsi, continuazione di un lavoro avviato nel 2022/2023, nell’ambito del progetto “Sguardi meridiani”, sostenuto da “Residenze per artisti nei territori (2023/2024)” dal Ministero della Cultura in collaborazione con la Regione Puglia.

Varjavandi dal 2006 è fondatore e direttore  del gruppo indipendente INC InNprogressCollective che si occupa di danze urbane, visual art e performing art, nel 2007 crea  la coreografia “HEIM” vincitrice del primo premio coreografico assoluto della Settimana Internazionale della danza di Spoleto, cui seguirà “Departure” e nel 2008 “Underskin”, vincitore della Settimana Internazionale della Danza di Spoleto , de LatinArte, del Premio UISP, del Premio Positano “Leonide Massinee”; del 2012 è “Oceania” per una produzione LaMaMa Umbria International; allo spettacolo ToPRAY del 2015 recensito anche dal New York Times segue nel 2017 “Oseman/il cielo”; mentre del 2019 è “Gahara”. Nel 2020 danza le coreografie di Sidi Larbi Cherkaoui per le scene del film Cyrano diretto da Joe Wright.

Attualmente è in tournée in qualità di danzatore con la DaCru Dance Company in People con la coreografia di Marisa Ragazzo e Omid Ighani. Del 2022 è NAS MAOS/ tra le mani, produzione dance installation, ceramic design exhibition, in collaborazione con ENDIADI CERAMICS, presentato al 65° Spoleto Festival dei Due Mondi. La ricerca, che con passione e costanza l’artista Afshin Varjavandi porta avanti, intreccia danza urbana e arte figurativa in un abbraccio che continua sempre più ad estendere le sue ramificazioni. Lo spettacolo “Mohàbbat” la cui parola in persiano significa “cura, affetto”, esprime tutta la profondità che pervade nell’elaborazione dei suoi spettacoli, molto intimi, che fotografano non solo la sua realtà familiare e sociale, ma anche le atrocità e i diritti umani negati in Iran, suo paese d’origine.

Come nasce il suo lavoro e di cosa parla?

Questo lavoro nasce dal desiderio di dedicare un’attenzione particolare a quelle che sono le origini della mia famiglia, una delle famiglie persiane scappate dall’Iran alla fine degli anni’ 70 a causa dello scoppio della rivoluzione. Fin da piccolo ho sempre rifiutato, probabilmente come forma di autodifesa, quelle che erano le mie origini, forse per cercare di sentirmi meno diverso solo per essere venuto, insieme alla mia famiglia, a vivere qui, in Italia. Poi, sono arrivato a un punto della mia vita che ho sentito il desiderio di celebrare questa “appartenenza”. Quando ho deciso di fare questo lavoro, non erano ancora state rese così pubbliche le problematiche dell’Iran. Quello che si conosce oggi, sono per l’esattezza 45 anni di ingiustizie, censure, disparità di genere, soppressione di tutte quelle che sono le forme artistiche – culturali, che il mio popolo persiano continua a subire. E quindi, avevo questo forte desiderio di creare un lavoro “appoggiandomi” naturalmente sulla storia della mia famiglia e raccontare quello che sentivo dentro.

Perché questa forte esigenza?

Questa esigenza del raccontare credo che vada in parallelo con quello che significa diventare grandi. Probabilmente è stato il punto in cui io ho cominciato a vedere nel mio passato un “valore” anziché vedere una “problematica”, perché comunque da giovanissimo adolescente poi ragazzo è sempre stato un punto di scomodità, in qualche maniera, anche il fatto di chiamarsi con un nome straniero mi ha creato dei problemi, tuttora, quando la polizia mi ferma e mi chiede i documenti, spesso mi domanda se parlo la lingua italiana. Io credo che questo sia un momento storico in cui è importante che la società si sensibilizzi su quello che è il concetto di abbattere ogni barriera. I persiani sono una popolazione estremamente generosa, come tipo di atteggiamento e come tipo di predisposizione, infatti, la parola “mohàbbat” è proprio una parola che in qualche maniera racchiude questo significato, è una forma di “cura” di “premura” che si ha verso gli altri. Il fatto di avere attenzione verso gli altri per me è proprio celebrare quello che sta avvenendo, e sta venendo fuori come informazione. Il popolo persiano soffre e si sta ribellando. Il concetto chiave dello spettacolo è proprio questo, rafforzare un aspetto fondamentale e che non si conosce della cultura persiana, quello dell’accoglienza e del prendersi cura.

Nello spettacolo “Mohàbbat (sull’Iran)” ci sono anche parti recitate. La commistione di codici è un’esigenza narrativa?

Quello che io ho voluto fare si appoggia a una tecnica che si chiama “verbatim Movement” ed è proprio un linguaggio contemporaneo, dove alla danza viene associata la parola. Diciamo che ho avuto questa esigenza, dal punto di vista della mia sensibilità, la drammaturgia dello spettacolo a un certo punto me lo richiedeva, tutto inizia con lo squillo di un telefono lo stesso che si sentiva a casa della mia famiglia quando ero piccolo, e che ogni volta, in qualche maniera allertava la famiglia, perché o erano i parenti che erano rimasti in Iran o erano le faccende burocratiche che i miei genitori stavano cercando di portare avanti per i documenti, per la cittadinanza, quindi c’era sempre questa “attesa”; ho avuto la necessità,  ad un certo punto della fase creativa, di raccontare questa sensazione incalzante anche tramite i danzatori. I testi che i danzatori recitano sono testi che io ho mescolato partendo dagli scritti dei ballerini della compagnia: Jenny Mattaioli, Chiara Morelli e Elia Pangaro di INCInProgressCollective dance, visual, urban art. Ho chiesto ad ognuno di loro di realizzare uno script che fosse una telefonata rivolta a un interlocutore con il quale loro desiderassero parlare da tanto tempo; ognuno di loro ha scelto un interlocutore reale della loro vita, poi, quello che io ho fatto, è stato un lavoro proprio di scomposizione del testo e l’ho mescolato con alcuni brani della letteratura mistica persiana in particolare un testo di Sohrab Sepehri “Un’oasi nell’attimo” , con versi tratti dalle poesie di Kiarostami e con alcune parole di mia madre. Lei fin da piccolo, mi racconta che quando io ero nella sua pancia si sentiva “correre sui tetti”, perché quando stava per scoppiare la rivoluzione e c’erano già realmente i soldati che correvano sui tetti. Tra l’altro in Iran i tetti delle case sono di tipo mediterraneo, molto simili a quelli del Salento.

Ho trovato molto interessante la scelta delle canzoni e davvero struggente la gestualità nella parte finale, quel segnare il confine col nastro blu e l’invito ad oltrepassarlo attraverso quel piccolo varco lasciato aperto.  

Nella mia personalissima storia, quello che si vede alla fine in realtà è appunto quella stanza azzurra raccontata da Sohrab Sepehri

Per lei cosa rappresenta il colore azzurro?

Per me rappresenta la spiritualità. La stanza azzurra, nella poesia di Sepehri, ricorre molto frequentemente, è un luogo dove lui si rifugia nel momento in cui si sente inadatto a stare nella realtà quindi questa apertura è anche un modo per dire: “venite all’interno della mia realtà” e in quello che è la stanza protetta divina, quella dell’elevazione, del sollevarsi ad un livello superiore, che possiamo chiamare spiritualità, energia, misticismo. È il tentativo di cercare di differenziarci dal nostro stato animale e avvicinarci più a quella che è la nostra natura divina, che ci differenzia da quelle che sono le altre forme viventi della terra, e che è dal mio punto di vista, bisognerebbe costantemente ricercare.

L’uso delle mani, quasi una lingua dei segni, rende lo spettacolo anche in parte inclusivo, lo è anche nelle sue intenzioni?

Sì, lo è assolutamente, lo vuole essere, vuole essere un invito a tutte le “persone”.

Lei è un danzatore ma preferisce spesso essere il coreografo dei suoi spettacoli.

Il linguaggio della coreografia è molto differente dal linguaggio della danza in qualità di esecuzione quindi il mio istinto a un certo punto è stato quello di creare delle architetture sulla scena. Ecco, è semplicemente questo il motivo per cui la mia predilezione ha virato, è stato molto automatico il fatto di cominciare a togliermi dal palco come performer e mettere a disposizione il mio occhio esterno per lavorare sui corpi degli altri danzatori. Quello che mi procura maggiori emozioni è sicuramente quello di coreografare, senza ombra di dubbio, ho provato grande soddisfazione quando nel 2016 il regista Giuseppe Tornatore ha scelto un estratto di toPray per alcune scene del suo film “La Corrispondenza”.  Io ancora danzo, di recente ho fatto parte del corpo di ballo in un film e tra l’altro fra poco inizierò un progetto dove sarò uno degli interpreti, quindi, diciamo che non è una parte che in me è totalmente abbandonata.

Perché la danza?

Perché per me la danza è la sintesi di tutti i linguaggi, cioè l’istinto primordiale degli esseri umani. I bambini nell’utero della mamma sulla musica si muovono. La danza è quel fattore universale che accomuna tutte le culture del mondo.