Tra storia e presente, pensieri pan/demici

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“Chi ha naufragato trema anche di fronte ad acque tranquille.”

Più di duemila anni fa Ovidio parlava di paura. In questo momento inquieto della storia non tutti lo fanno, ma la maggior parte di noi ha sicuramente percepito la sua essenza. C’è chi rivolge i suoi pensieri alla bolletta, chi alla tassa, chi ai figli, c’è chi crede di dover apprezzare di più un abbraccio.
Io parlo di me: sono sempre stata dell’idea che la tecnologia non potrà mai sostituire i rapporti personali che (lo dico senza retorica) sono convinta abbiano bisogno di corpi per esprimersi.

Appena questa tragedia ha cominciato a manifestarsi, non ho pensato a me. Ho pensato alle situazioni di disagio: a chi avesse una dipendenza, un’ossessione, una paura. Ho pensato ai matrimoni infelici. Agli alcolizzati, ai drogati, ai violenti. Ai violentati, ai randagi, agli abbandonati. Ho pensato a loro e a come avrebbero affrontato questa catastrofe, ma soprattutto mi sono chiesta se ne sarebbero usciti vivi. Certe volte ci si interroga e si cerca furiosamente una risposta.
Ad esempio, può capitare di pensare a quanto ci si senta fortunati o no. Dal mio piccolo angolo di mondo, credo di poter dire che quando si ha una famiglia che ti ama e che ti supporta, quando si hanno degli amici che ti mancano o quando si hanno delle passioni, be’, quella forse non è fortuna. È tesoro.

E a proposito di passioni, una cosa che ho imparato è che è importante non improvvisarsi, che è necessario costruire ed edificare subito, già da bambini. Che le passioni non si possono inventare, ma si possono solo alimentare e nutrire di amore e dedizione e tempo. Ho imparato che è bello sedersi sul muretto del balcone e suonare la chitarra all’ora del tramonto, in una pace che non si riscopre dall’estate passata. Io ho sentito di nuovo le carezze del vento fra i capelli e la sollecitudine dei raggi del sole a riscaldare la pelle. Ho realizzato l’importanza della motivazione e del sogno; “Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, però non la sopporto la gente che non sogna”, cantava Guccini nel 1966, appena due anni prima della rivoluzione del ’68. Il ’68 come contributo alla conquista dello statuto dei lavoratori. Lavoro, dal latino labor, fatica. Lavoro che tutti avremmo voluto festeggiare appena pochi giorni fa, lavoro che avremmo voluto celebrare in un primo maggio 2020, felice e pieno di sole.

E chi lo perdona questo anno mascherato, chi lo perdona questo ragazzino dispettoso senza disciplina né compassione. Io non ci riesco. Settimane fa ho pianto. Perché? Perché ero finalmente riuscita ad accettare che a scuola non saremmo più tornati. Ho sempre creduto che la scuola, nonostante le difficoltà che cementa sulla sua e sulla strada di noi alunni, sia sempre stata, per vie traverse o no, amica, compagna, genitore. Assimilare quella consapevolezza, lo ammetto, è stato scabroso. Adesso, però e per fortuna, continua a tenerci per mano e di questo mi felicito nell’attesa che tutto ritorni com’era prima. Per cui, a distanza di due mesi (possibile siano solo due?), posso gridarlo forte che sono stati il bene delle persone con cui ho incessantemente condiviso questa casa e l’amore per ciò che ormai coltivo da anni, ad avermi sorretta in questo momento della mia vita e della storia del mondo che mai si potranno dimenticare.
Adesso la sera, quando siamo tutti seduti a tavola per condividere la cena, accendiamo la televisione e guardiamo il telegiornale. Io ascolto le notizie con attenzione, ma forse non con la stessa empatia di mia madre che, vicina al dolore delle persone da molti più anni di me, improvvisamente si rannuvola e non riesce a controllare l’espressione di tristezza che solca il suo volto. La sera però, attenti ai nostri umori, ci riempiamo di premure e cure e ci concediamo dei momenti di serenità: ascoltiamo un po’ di musica del cuore e ci distraiamo con un gioco leggero, con la discussione di un libro.

Così per passare il tempo, giusto per sentirci un po’ più vicini, giusto perché ci amiamo.