La “truffa” pensionistica e le pensioni d’oro

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Il punto di vista

InpsHa fatto giustamente molto scalpore, in questi giorni, la notizia dell’esistenza di svariate rendite pensionistiche da nababbi, la più esorbitante delle quali arriva ad oltre 90.000 euro al mese.

L’indignazione è d’obbligo, anche se purtroppo i correttivi non sono alla portata di mano, per la tutela che la nostra Costituzione garantisce ai cosiddetti “diritti acquisiti”. Le rate mensili della pensione sono infatti paragonabili all’assolvimento, da parte dell’Ente previdenziale, di un “contratto” tra l’Ente che ha incassato i contributi e il lavoratore, una volta che questi abbia raggiunto i requisiti necessari: si ragiona quindi dell’ovvio principio per cui i contratti vanno rispettati, anche quando diventano troppo onerosi per una delle parti.

Non vogliamo addentrarci in ragionamenti di diritto costituzionale, per i quali ci mancano le competenze, sebbene anche il meccanismo di controllo sulla costituzionalità delle norme non sia immutabile. Ai famigerati “vincoli di bilancio” (cioè alla mancanza di soldi, in definitiva) sono stati già piegati altri diritti costituzionali, quali il diritto alla salute, e quindi un domani la Suprema Corte potrebbe sancire che anche i diritti acquisiti possano essere “temperati” per gli stessi motivi.

È forse più interessante riflettere partendo dal concetto stesso di previdenza e dalla sua radice linguistica.

Essere previdenti è una delle qualità più apprezzate nel “buon padre di famiglia” (sebbene sia una figura poco di moda nell’epoca del consumismo); nel caso specifico significa mettere da parte qualcosa durante la vita lavorativa, per quando il fisico o l’intelletto non ci renderanno più adatti a lavorare e quindi a guadagnare. Il sistema pensionistico è uno dei pilastri del cosiddetto “welfare state” ed è stato introdotto nell’epoca post-industriale per venire incontro a interessi distinti ma convergenti dell’Amministrazione (limitare la necessità di sostenere cittadini anziani indigenti, come ancora avviene con l’assegno sociale) e del cittadino (assicurarsi una terza età non troppo diversa dalle altre nel livello di vita). Principi nobilissimi, da paesi civili come quelli della Vecchia Europa, dove questo istituto nacque. In Italia però i problemi non sono mai i principi, ma la loro applicazione.

Il caso di queste pensioni d’oro dimostra infatti che, sfruttando i meccanismi pensionistici generali, qualcuno sia stato non solo tutelato nella vecchiaia, ma ricoperto d’oro, ovviamente a spese della collettività. Per generare queste aberrazioni basta infatti abbinare gli interessi corporativistici di alcune categorie (come ad esempio i lavoratori telefonici, fino a due decenni fa dei para-statali, che hanno sempre goduto di trattamenti pensionistici di favore), e la risaputa vicinanza dei loro vertici alla classe politica degli anni ’80, con le regole previdenziali vigenti all’epoca.

Facendo un paragone provocatorio, le regole del sistema pensionistico italiano fino alla metà degli anni ’90, somiglia per molti versi ad una delle truffe più classiche progettate ai danni dei risparmiatori e che nel mondo della finanza è conosciuta come “schema Ponzi”, dal nome del suo ideatore. In queste truffe si comincia promettendo alti tassi d’interesse agli ignari risparmiatori e si ottiene fiducia, pagando quei lauti guadagni con i soldi di chi, ingolosito, arriva dopo e non vuole perdere l’affare. Il castello crolla nel momento in cui le entrate del truffatore sotto forma di nuovi clienti, non bastano a pagare gli interessi dei vecchi: a questo punto, i poveri ultimi arrivati avranno perso tutto, mentre ci saranno stati i primi fortunati che avranno goduto dell’infernale meccanismo.

Se appare fuori luogo (e ce ne scusiamo preventivamente), il provocatorio accostamento del mondo dei pensionati a questa truffa, scendere nei dettagli farà comprendere i molti punti di contatto con lo schema Ponzi. Fino al 1995, i lavoratori dipendenti contribuivano al sistema con trattenute sullo stipendio e quei soldi venivano usati per pagare le rate di chi era già in pensione (negli anni del boom economico, circa il 20% dei cittadini); queste rate erano calcolate partendo dal valore degli ultimi stipendi (retribuzioni, da cui metodo retributivo). Generoso sistema, che permetteva di andare in pensione anche a cinquant’anni in alcuni casi e garantiva pensioni perfino più alte rispetto allo stipendio; era infatti consuetudine (come probabilmente in questi casi di pensioni d’oro), concentrare gli aumenti di retribuzione negli ultimi anni di lavoro, per massimizzare i vantaggi: bastava farsi concedere un aumento rilevante negli ultimi anni per godere di una pensione paragonabile fino alla dipartita. Tutto questo è divenuto insostenibile nei nostri giorni, nei quali i pensionati rappresentano quasi la maggioranza dei cittadini (e dei votanti) e per fortuna aumentano gli anni di vita che aspettano chi va in pensione. Risultato: i contributi di chi attualmente lavora non bastano a pagare pensioni di quel livello e allo stesso tempo dare la certezza che chi lavora riuscirà a sua volta ad andare in pensione. Dovrebbero a questo punto delinearsi gli aspetti di somiglianza con la truffa…

È stato quasi truffaldino non aver valutato (o non averlo voluto fare, per motivi di consenso politico, ma anche di pura convenienza diretta) la sostenibilità del sistema, che era facilmente ipotizzabile potesse venire meno, e soprattutto l’equità tra le generazioni, considerando che i veri truffati, come nello schema Ponzi, sono gli ultimi arrivati, loro malgrado coinvolti nel meccanismo. Le ultime generazioni infatti “godono” del metodo contributivo, secondo il quale le rate della pensione saranno calcolate in base ai contributi versati (proporzionali ai guadagni di tutta la vita lavorativa e non solo a quello degli ultimi stipendi), calibrandole al ribasso all’aumentare dell’aspettativa di vita, cioè gli anni che restano da vivere. E’ chiaro però che tutto si gioca sui “parametri” con i quali fare questi calcoli, parametri gioco forza punitivi, dovendo lasciare spazio al rispetto dei “diritti acquisiti” degli attuali pensionati. Insomma, siamo alle prese con la restituzione di un finanziamento, ottenuto da i nostri genitori o i nostri nonni, con rate che non ci possiamo più permettere.

I contorni di questa epocale iniquità furono chiari già nella precedente crisi economico-finanziaria (nei primi anni ’90), senza che però si riuscisse a trovare una soluzione equa e definitiva: nel 1995 il Governo Dini riformò il sistema introducendo il metodo contributivo per i nuovi assunti, ma salvò chi aveva già 18 anni di contribuzione alle spalle (ancora una volta, la maggioranza dei votanti). Il prezzo di queste decisioni demagogiche lo abbiamo pagato con la Riforma Fornero (rimane agli atti il suo presentimento su quanto il Sen. Monti le avesse voluto male, nominandola Ministro), che ha introdotto il sistema contributivo per tutti i lavoratori e completato il quadro delle iniquità, trovandosi probabilmente con pochissime o nulle alternative a causa del sostanziale immobilismo di tutti i governi che si sono succeduti in questi anni.

È sicuramente necessario far tornare questi incredibili trattamenti pensionistici entro limiti più ragionevoli (in Germania non si possono superare i 5.000 euro mensili), Corte Costituzionale permettendo. Ma ormai la frittata è fatta, dal punto di vista di chi era vicino alla pensione, che vede iniquo il proprio trattamento rispetto a chi lo ha preceduto, e soprattutto dal punto di vista delle generazioni successive, formate da chi forse potrà andare in pensione, ma probabilmente con importi così bassi che avrà bisogno di continuare a lavorare o addirittura di chiedere l’integrazione di un assegno sociale. 

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