Semplici suggestioni e profumate magie. I purciddruzzi: delicata preziosità salentina

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Ci sono alcuni piccoli e apparentemente banali rituali che però lasciano segni indelebili. Tocchi di memoria che illuminano il cuore. Brandelli di esperienze vissute senza la consapevolezza dell’importanza di ciò che accadeva. Ogni anno quando arrivava il periodo intorno al giorno di Santa Lucia, il 13 Dicembre, la mia mamma comprava l’occorrente per fare il tipico dolce Salentino col quale si festeggia il Natale: i purciddruzzi. Questo semplice atto spalancava una porta già aperta dalla costruzione del presepe e dall’addobbo di tutta la casa e dell’albero di Natale .

Il giorno stabilito, che non andava mai oltre il 18-20 Dicembre, ci si riuniva intorno al tavolo dove cominciava il rito più dolce e più profumato dell’anno. Sulla spianatoia veniva formata una fontana di farina mista a semola, con un grande buco al centro, dove si mettevano con cadenzata sacralità, tutti gli ingredienti, uno per uno, come per  una pozione magica, che doveva arrivare a completarsi nella magia del Natale .

Il succo d’arancia, e le sue bucce scottate nell’olio bollente, sollevavano aromi inebrianti, un bel pizzico di sale, una manciata di zucchero, una copiosa spolverata di cannella in polvere, per rendere la suggestione penetrante e avvolgente, il lievito per dolci o secondo i gusti quello di birra o ancora l’ammoniaca per dolci (si può scegliere così come farli “crescere”, come si dice in gergo, per renderli più o meno croccanti e lievitati).
Arrivava poi l’ingrediente che impregnava del suo profumo per qualche giorno tutta la casa: l’Anice! Si, si usa l’Anice per “bagnare”, termine con cui si esprime l’atto di inumidire la  farina per fare l’impasto. Qualcuno usa il vino bianco, la mia mamma come sua madre e sua nonna, e come faccio io ora, usava l’Anice.

Tutto è pronto per l’alchimia che trasforma tanti ingredienti in purciddruzzi. E giù mescola, impasta e poi ancora impasta, fino ad ottenere una  pasta soda,  morbida e vellutata come il lobo dell’orecchio. Questa era l’espressione che mia zia usava per indicare come doveva essere l’impasto. Finito questo passaggio, l’impasto morbido e profumato si metteva a riposare sotto un candido canovaccio bianco di canapone tessuto al telaio.

Intanto sugli altri tavoli si stendeva una tovaglia bianca che avrebbe dovuto accogliere i manufatti crudi durante la lavorazione.

Ricordo come guardavo le mani di mia madre che si accingevano a prendere un pezzo per volta, di quella pasta per farne dei cilindri tutti uguali, che venivano tagliati in gnocchetti, uno uguale all’altro, con una precisione che non cercavo neanche di capire come fosse possibile. Il mio compito e di mio fratello era quello più divertente di tutti, passare quegli gnocchetti sui rebbi di una forchetta o sul retro di una grattugia per dargli una forma che serviva a renderli più belli e decorati. Questo passaggio era divertentissimo ed io non mi facevo certo mancare l’occasione di assaggiarne qualcuno, tanto erano attraenti, con la scusa che era venuto male.

Poi si spostavano con i vassoi sull’altro tavolo a riposare prima della cottura. Intanto  le magiche mani della mamma lavoravano la pasta finché si arrivava ad averne trasformata in gnocchetti circa due terzi. Avevamo fatto un mare di purciddruzzi! Ora con lo stesso impasto si procedeva a creare un’altra delizia: le cartiddrate, losanghe dentellate che formano farfalle o rotoli come corone. Per  farle la mamma stendeva la pasta in una sfoglia sottile e grande, poi con una rondella dentellata le tagliava larghe circa 3-4 cm e le arrotolava con molta maestria, non era proprio semplicissimo farle. Il lavoro di noi ragazzi finiva qui, ma non finiva qui la gioia e l’entusiasmo per questo momento dedicato alla condivisione dei preparativi della Festa. La mamma anzi aveva il compito ancora di dover friggere in abbondante olio di oliva tutta quella grazia di Dio.

Io la aiutavo riportandole indietro porzioni di purciddruzzi e poi cartiddrate per essere cotti in frittura. Finito questo lavoro si attendeva il giorno dopo per “girare” (ripassare) i  purciddruzzi nel miele o nel decotto di vino secondo gusti e tradizione.

Anche per questa operazione c’era tutta una organizzazione: si preparavano i piatti dentro cui sarebbero stati riposti e confezionati i nostri dolcetti. Si preparava la larga pentola con abbondante miele millefiori che si metteva a scaldare. Si organizzavano gli addobbi per la confezione: mandorle tostate, pinoli, anisetti argento o oro, cannella e zucchero. Si procedeva quindi al passaggio dei purciddruzzi nel miele caldo e filante dentro cui si mettevano a profumarlo sottili bucce di arancia tagliate a julienne.  Se ne mettevano una quantità adatta al piatto da preparare e si giravano e rigiravano per imbiondirli di miele luccicante, quindi si disponevano nei piatti e si guarnivano con tutti gli ingredienti menzionati. Si formava una piramide piatta in cima perché doveva poi ospitare una o più cartiddrate.

Che spettacolo! Che emozione! Si finiva con lo spolverare dopo aver messo mandorle, cannella, pinoli, anisetti, l’ultima passata di miele, quello che era avanzato nella padella, insieme ad una generosa e delicata spolverata di zucchero per renderli luccicanti e meravigliosi.

Il nostro Natale era iniziato!

Ora mi  sorprendo a sorridere, con gli occhi che luccicano nel ricordare tutto questo, mentre mi accingo a stilare la lista degli ingredienti che mi serviranno per compiere, spero con altrettanta magia e maestria di mia madre,  l’alchimia che mi porta ogni anno a preparare questo dolce dorato e luccicante per la  festosa  tavola Natalizia. Mentre succede tutto questo rammento il racconto che la mamma ci faceva dando vita al prodigioso impasto, sull’origine dei purciddruzzi.

Lei raccontava, mentre impastava, che una triste storia di povertà, aveva creato qualcosa di così semplice eppure ricchissimo di suggestioni ed elegante bontà,  quasi come un segno di speranza, un buon auspicio di ricchezza e benessere. La sua storia narrava di una umile famiglia e di una giovane donna. I suoi bambini, nei giorni prossimi al Natale chiedevano alla madre che preparasse qualcosa di buono, di dolce. La donna scoraggiata nel cuore perché in casa non aveva nulla, chiese aiuto ai bambini stessi, dicendo loro che per Natale tutti, anche i bambini dovevano fare un dono a Gesù. Così  li invitò a fare  un gioco, a chi sarebbe riuscito a portare al presepe qualcosa come i pastorelli.

I bambini furono contenti di questa gara di solidarietà e uscirono  per andare a cercare i doni per il presepe. Dopo poche ore, chi tornò con della farina, chi con il miele, chi con le arance, chi con olio e poi pinoli, zucchero, mandorle, vino.

Ognuno posò qualcosa davanti alla sacra famiglia. La madre, sorpresa, prese tutte quelle meraviglie e nel silenzio della notte santa preparò qualcosa di magico. Quando i bambini si furono svegliati la mattina di Natale trovarono questo piatto colmo di palline dorate e profumate, ma molto più prezioso dell’oro perché oltre che il corpo, nutriva di gioia il cuore ed il loro Natale.

Questa è la leggenda salentina secondo cui sarebbe nato questo dolce. In realtà sappiamo che i purciddruzzi sono molto simili agli struffoli napoletani, alla cicerchiata abruzzese ed altro ancora.

Addirittura c’è chi farebbe risalire questo dolce all’antica Roma e più indietro all’antica Grecia. Potrebbe darsi, data la somiglianza con alcuni attuali dolci greci ed orientali. Ma a noi piace pensare che una notte, la più bella dell’anno, una madre abbia compiuto una autentica magia, trasformando la povertà in oro e gioia grande.

Buon Natale!