Dolore, amore e speranza in “Come le rose a Maggio”, la storia vera raccontata da Antonello D’Ajello

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Copertina Dajello Fronte webCe lo ripetiamo spesso di non dare mai nulla per scontato, ma la realtà è che tutti noi abbiamo bisogno di certezze su cui fare affidamento per andare avanti, su cui basare la nostra vita, ecco perché mettiamo in secondo piano questa semplice verità. Ci illudiamo che il “male” sia lontano, che non ci riguardi e che sia destinato ad abbattersi altrove su sconosciuti che non hanno nulla a che vedere con noi.

Poi accade. Magari un giorno di festa, quando tutta la famiglia è riunita, pronta a festeggiare. Si insinua come una banale febbre dovuta ad una fastidiosa influenza. Invece no, è il “Mostro” che si sta accanendo senza motivo sulla nostra vita e con lui arriva il caos.

Paura, sconcerto, smarrimento dilagano, polverizzano le nostre certezze e, senza di queste, precipitiamo in un costante stato di angoscia e incredulità. Ci chiediamo ossessivamente il perché, ma non c’è un perché a parte, forse, che questa è la vita vera. Arriva in libreria Come le rose a Maggio di Antonello D’Ajello, edito da ArgoMenti edizioni.

Attraverso una scrittura semplice e scorrevole, l’autore ci narra, in questo libro, di come la malattia di suo figlio, appena adolescente, abbia sconvolto e messo in discussione la sua famiglia, costringendolo a fare i conti con una durissima realtà. Il calvario del figlio, dopo un primo momento di shock, lo spinge a ridefinire la sua figura di uomo, di marito e di padre per poter trovare dentro di sé la forza e il coraggio di tener saldo, tra tante incertezze, il timone della famiglia, guidato dalla ferrea speranza che un giorno tutto sarà finalmente superato. “Ero lì seduto, a guardare la pioggia dalle enormi vetrate della clinica a Roma, che era sempre piovosa e fredda. Mi sono chiesto se tutto ciò che vedevo ogni giorno (mio figlio, ragazzi sofferenti  e indifesi come lui, ugualmente violentati dalla vita) poteva esser visto da oltre quegli enormi, verdi giardini dell’ospedale Santa Lucia. Mi chiedevo se, fuori da lì, le persone avessero anche solo una pallida idea di che cosa significhi sopportare le pene dell’inferno – Ci racconta D’Ajello, mentre parliamo delle motivazioni che l’hanno spinto a racchiudere nelle pagine di un libro la sua storia – Allora ho deciso di scrivere, per far sapere ciò che non si vede, che non si immagina nemmeno. Qualcosa che non tutti, per fortuna, vivono in prima persona. Conoscere  la sofferenza altrui serve a considerare maggiormente le piccole fortune, la grande felicità che risiede nelle piccole cose, come la serenità in famiglia o una vita normale. Ho scritto un libro per liberarmi il cuore e l’anima da tutto il dolore che avevo incamerato, specialmente durante i giorni in cui mio figlio si trovava in rianimazione. Un modo personale di urlare in silenzio la rabbia di un padre ferito che ha dovuto essere molto forte. A volte il dolore ti porta ad esternare un contesto così grave e a farti riflettere di quanto noi tutti siamo piccoli davanti all’imponderabile, di fronte all’imprevisto dramma che ti può colpire da un momento all’altro. Nessuno è esente da questo e quando ti senti all’inferno vuoi farlo vedere a tutti quanti, affinché sappiano che esiste davvero, che è peggio di come lo abbiamo sempre immaginato. Ti siedi, guardando la pioggia, e pensi a come farlo conoscere, a  come far capire che non è tutto bello, tutto così facile, tutto così semplice, tutto così scontato nella vita. Chi soffre ha una visione delle cose completamente e inequivocabilmente diversa, e volevo farlo vedere proprio a loro, per fargli apprezzare meglio il loro avere, il loro essere sereni”.

Non c’è un libretto delle istruzioni che ti insegni come non andare in pezzi, a sorridere e dare coraggio quando il terrore ti stringe la gola e la disperazione ti inebetisce. “Non è stato facile e non lo è ancora oggi, né per me né per nessuno della mia famiglia, in primis per mio figlio Matteo. Sono stato costretto, purtroppo, a modificare ogni mia abitudine, ogni mio momento della giornata e credo che non sia facile per nessuno. Il coraggio per vivere e combattere lo si trova  ascoltando gli altri che vivono la tua Antonello Fotostessa o una peggiore situazione. Madri e padri come te, figli come tuo figlio. Senza rendersene conto, sono loro a darti la forza per continuare a sperare e a combattere. Sono situazioni forzate dagli eventi, ti trascinano in un sentirsi uniti nel dolore. Tutto quello che senti e che condividi diventa coraggio, voglia di combattere la più dura delle guerre, anche quando sai di averle già perse in partenza. A volte ciò ti porta a dimenticare chi sei, qual è il tuo vero compito di marito e padre, ma questo credo succeda in ogni essere umano che è costretto a vivere una vita che non riconosce come sua forse, o che non vorrebbe mai vivere in quel modo”.

In quest’ultimo periodo il tema delle infermità fortemente invalidanti e dell’eutanasia sono diventati argomento di discussione attraverso libri come quello di Jojo Moyes “Io prima di Te” o quello di Fausto Brizzi “Cento giorni di felicità” o come il caso eclatante dell’atleta belga paraolimpica Marieke Vervoort, più volte campionessa mondiale, che ha sottoscritto nel 2008 tutti i documenti necessari per poter procedere al suicidio assistito, ma solo nel caso in cui la sofferenza provocata dalla sua malattia diventasse “insopportabile”. Al di là della speranza e della voglia di vivere, possiamo dire che questo sia l’altro lato della medaglia, l’alternativa estrema di chi non riesce ad accettare un’esistenza che, in alcuni casi, vuol dire solo sofferenza e perdita della dignità. “Penso che in parte abbiano ragione. Ho visto troppa sofferenza per non accettare qualsiasi cosa pur di ritrovare la propria dignità di essere umano. La malattia, la solitudine e la sofferenza, tolgono spesso tale dignità, che è un diritto di ognuno di noi, tanto da portare certe persone a voler morire invece che vivere nell’abbandono più totale o nel dolore che ti attanaglia ogni santo giorno, senza nessuna speranza di guarigione. Molte persone che ho conosciuto, se avessero avuto la forza e la possibilità per farlo, si sarebbero  volontariamente gettate dal terrazzo, pur di non vivere nelle condizioni in cui erano. Quindi non ho pregiudizio alcuno sulle decisioni che la sofferenza ti porta a pensare. Sono però dell’avviso, che se hai un buon supporto familiare e una piccola speranza di migliorare il tuo stato, o per lo meno di poter condividere e vivere nel tuo piccolo le cose essenziali della vita, solo allora hai il dovere di viverla comunque vada, perché è un dono troppo grande da sprecare precocemente senza crederci nemmeno un po’”.

Un ruolo determinante, in quest’ambito, lo giocano le istituzioni che, tramite l’assistenza sanitaria, devono cercare di venire incontro alle necessità di quelle famiglie colpite da malattie o gravi disabilità; anche questo è un aspetto da non tralasciare, se consideriamo che, in situazioni così delicate, le famiglie sono costrette a sopportare spese ingenti. “La Sanità Italiana è decisamente strana e incomprensibile. Permette liste di attesa pazzesche, anche di anni. Si disinteressa di tanta gente costretta ad affrontare spese esorbitanti in città a centinaia di chilometri da casa. Non rimborsa nessun  vitto, nessun soggiorno nemmeno se obbligato, e la cosa peggiore è che non ha riconosciuto l’accompagnamento a una mamma costretta a rimanere sette mesi in ospedale con un paziente minorenne che risultava ricoverato, e per giunta lontanissimo da casa sua, con le svariate difficoltà di ambientamento e di solitudine interiore.  E parliamo di un ragazzo che per tutti i mesi di ricovero in clinica, ha avuto bisogno sempre di assistenza, ventiquattro ore al giorno per nutrirsi e lavarsi, e di certo non poteva essere lasciato da solo in balia della disperazione più totale. A quindici anni ti mancano gli amici più cari, i compagni di scuola, i parenti e anche le tue abitudini. Niente di tutto questo. Nessun aiuto economico, nessun rimborso spese, ma soprattutto nessun interesse a concedere a tanta gente la possibilità di avere celerità negli esami clinici ( Risonanze magnetiche ,Tac etc.)”. Salutiamo Antonello con un abbraccio. La speranza è contagiosa, anche noi ci uniamo a tutti gli amici e familiari che hanno sostenuto lui e la sua famiglia, augurandogli che Matteo possa un giorno finalmente buttarsi tutto alle spalle e riprendere a camminare con le sue gambe sulla lunga strada della vita.