Spettri di Clint, di Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri: in libreria un testo che indaga sulla figura umana e cinematografica di Clint Eastwood

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“Spettri di Clint” – L’America del mito nell’opera di Eastwood, è il nuovo libro di Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri, prefazione di Alessandro Cappabianca con un saggio di Anna Camaiti Hostert, edito nel 2023 da Baldini+Castoldi, della collana i Fenicotteri. Presentato per la prima volta a Lecce, è in giro per l’Italia. Ultime tappe Genova e San Benedetto del Tronto.

Perché “Spettri di Clint”?

Certo, la spettralità appartiene al dispositivo-cinema, con le magie schermiche di luci e ombre e corpi di attori e attrici che sono già fantasmatici… anche il divo Eastwood. Ma c’è di più. “Per capire i vivi bisogna saper frequentare i morti”, ricorda Minerva, la vecchia sacerdotessa voodoo di Mezzanotte nel giardino del bene e del male. E non è l’unico film diretto da Eastwood ad avere familiarità con gli spettri, con i territori al confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Pensiamo a Herafter o a Gli spietati. E sono spettri speciali e attivi, vendicativi e giustizieri, biblici e animisti, “mostri” perturbanti che spaventano, nei western e nei drammi moderni del cineasta californiano, proprio come quelli che, nell’incipit del Manifesto del partito comunista di Marx, si aggirano per l’Europa e terrorizzano i potenti. Fantasmi di coloro che sono già morti e pretendono giustizia (Il texano dagli occhi di ghiaccio, Lo straniero senza nome, Il cavaliere pallido, ovvero ‘il cavaliere dell’Apocalisse’) o che non sono ancora nati e saranno vittime di guerre civili, violenze politiche, stermini razzisti, nazionalisti, religiosi o sessisti, colonialisti, imperialisti (il ciclo Callaghan, Uomo nel mirino, Corda tesa, Potere assoluto Changeling…). La perdita dell’innocenza americana ha molti nomi: Geronimo, Kkk, bomba atomica, Corea, maccartismo, Vietnam, Panama, Cile, Martin Luther King, Grenada (Invictus, Gunny, J. Edgar, Firefox, Lettere da Iwo Jima…) … Il titolo del nostro libro vuole infatti parafrasare Spettri di Marx, il saggio del filosofo francese Jacques Derrida scritto nel 1993 dopo la fine dell’Urss e del primo, e non ultimo, esperimento comunista. Se la smisurata degradazione dell’uomo si misura, tuttora nel rapporto verso la donna o verso i popoli annientabili, ed è proprio il fallogocentrismo che questi film radiografano e combattono, ci sembra che, al fianco di Derrida, e magari anche dello spirito didattico di Rossellini, Eastwood raffigura nelle sue opere, sempre storicamente determinate, un altro modo possibile di vivere. Ci spintonano verso un’etica nuova. Non più concentrata sulla soggettività desiderante, quella potenza interiore che si oppone a ogni chiesa, comunità o partito, e così strettamente collegata alla sensibilità moderna ribelle, da Fellini a Oshima, da Bergman ad Antonioni, ma su una soggettività plurale (il fantasma, scrive Derrida, è il “più d’uno”). Non si può apprendere a vivere da soli, ma solo imparando dall’altro, dall’ignoto, nell’oscillare tra la vita e la morte, intrattenendoci con i fantasmi che ci interrogano perennemente sulle nostre responsabilità, rispetto al passato e al futuro. Inoltre, un filone del tardo western spaghetti italiano (penso ai film del 1969, come E dio disse a Caino… di Antonio Margheriti, Django il bastardo di Sergio Garrone o Sabata di Gianfranco Parolini) apriva un plateale connubio postmoderno di azione e fantasy, western e horror che radicalizzava le più sottili contaminazioni della “trilogia del dollaro” di Sergio Leone. Era Clint ad avere spettralizzato il nostro cinema o viceversa?

Dove lo avete intervistato e com’è di persona?

A Roma, nella sua stanza dell’hotel Hassler, nel 1988. Non era una intervista collettiva (ne abbiamo registrate molte con lui, tra Venezia, Cannes e Berlino) perché Patrizia Ugolotti, ufficio stampa della Wb, ci ha detto che Eastwood voleva conoscere i critici del manifesto, giornale comunista che aveva sempre parlato bene dei suoi lavori. Timido, poche parole ma di precisione millimetrica. Salutista. Reduce dalla palestra che frequentava quotidianamente. Gentilissimo. Come molti artisti americani rispondeva a qualunque domanda come se fosse particolarmente intelligente.

Perché è importante leggere questo libro?

Non possiamo dire noi che sia importante, ma vorremmo che fosse piacevole da leggere. È sorprendente, come i suoi film. Eastwood è un cineasta e un divo molto amato in Italia, addirittura di crescente popolarità, persino adesso che ha 94 anni. Ma non sempre è stato compreso correttamente il suo contributo critico e originale all’interno della cultura, dell’arte e del cinema americano. Pensiamo agli stretti rapporti con il movimento filosofico trascendentalista e soprattutto con Thoreau. Con la letteratura e la pittura (Curson McCullers e Honkytonk Man, Mary Cassat e Vanessa in the Garden), la pop art e i fumetti (Broncho Billy), il jazz (nessuno si era mai confrontato con la ‘rivoluzione Parker’) e con il classicismo hollywoodiano (Wellman, Walsh, George Marshall, Potter…). E l’aspra polemica con i cosiddetti liberal in limousine e con il partito democratico. Tradotto da noi come un Clint di destra se non addirittura fascista. Come se Dario Fo, non poco critico del Pci durante le lotte del Sessantotto, fosse stato per questo etichettato come un “artista e intellettuale di destra”. Ci siamo accorti inoltre che il libro era già pronto, scritto nel corso degli anni sulle pagine del manifesto. Avevamo infatti seguito passo passo e con molta passione, dal 1977 in poi, il suo lavoro, per molto tempo incompreso ed equivocato, negli Stati Uniti e in Italia, che noi consideravamo uno sguardo critico e per molti aspetti sottilmente rivoluzionario sul cinema e sulla storia nordamericana. “La politica – scriveva anche Brecht – è la capacità di pensare con la testa del nemico”. Nei ruggenti anni 70 e nei decenni successivi, questa qualità è stata interpretata opportunisticamente. Per battere il nemico o per comprenderne le ragioni profonde di un crimine, di chi ha perduto o deve perdere. Clint, anche quando è il poliziotto si identifica totalmente con il criminale, quasi sconfina in lui, non solo per sconfiggerlo o scusarne sociologicamente i moventi, ma perché vuole costruire con lui un “campo di illegalità” che crei nuova giurisprudenza, nuovi set mentali, nuovi assetti immaginari. Il saggio di Anna Camaiti Hostert, americanista e docente di cultural studies a Chicago, che chiude il nostro libro, conferma questa ipotesi. Clint è stato anche segnato profondamente dall’esperienza italiana. Non solo da Sergio Leone. Ma anche da De Sica che lo ha diretto in Le Streghe e gli ha insegnato tutti i segreti del neorealismo, fondamentali per la sua esperienza, unica, di produttore indipendente dentro e fuori Hollywood. Raccontarlo per noi è anche parlare di Italia e di cinema italiano.

Il film che più di tutti lo rappresenta e che ve lo ha fatto di più apprezzare

Più di un film si tratta di un personaggio. C’è già molto ispettore Callaghan, protagonista di ben sei thriller (di cui uno solo da lui diretto, Coraggio fatti ammazzare) nello ‘straniero senza nome’ della trilogia leoniana. Un settimo degli oltre 70 film interpretati da Eastwood, costituiscono il suo nucleo divistico forte (e parliamo di 9 film realizzati tra il 1964 e il 2002). Credo che Dirty Harry lo rappresenti perfettamente e lo ha imposto nell’immaginario collettivo planetario. Anti-eroe, sì, ma dal sapore anche antico. Se il Ringo di John Wayne in Ombre rosse se ne esce con un filosofico “so quello che voglio sapere”, Clint, più esistenzialisticamente risponderà in Bronco Billy a Antoinette Lilly che gli chiede di definirsi: “Sono quel che voglio essere”. Proprio come avrebbe risposto Dirty Harry. Si trattava di elaborare un anti-eroe dalla moralità in fieri, eticamente critico, sessualmente oggetto d’attrazione e non soggetto unico desiderante. Alternativo all’apologeta dell’esistente e della supremazia angloamericana nel mondo. L’anti-James Bond, a parte un comune senso dell’umorismo. Nei western di Leone il misterioso giustiziere è inizialmente un mercenario che si fa pagare da due bande rivali contemporaneamente. Il colmo dell’orrore morale: come essere partigiano e repubblichino insieme, ma sapersi trasformare in altro. Questo forse spiega il forte impatto subliminale che ebbe il film a livello popolare nei primi anni 60. Come se una trilogia cinematografica potesse sostituire quel percorso politico-culturale, mai compiuto, di “verità e riconciliazione” e guarire i sempre affioranti rigurgiti autoritari e fascisti. Per difendere Callaghan da chi lo considerava un fascistoide giustiziere della notte, cioè un cittadino al di sopra della Legge che si fa giustizia da sé, Eastwood ricordò il principio etico alla base del processo di Norimberga, quando gli alleati condannarono i gerarchi nazisti che si giustificavano come esecutori di ordini superiori. All’ordine immorale non si obbedisce mai. La Legge va modificata secondo Giustizia, con ogni mezzo necessario. Nel caso specifico: contro il serial killer metropolitano, figura inedita di criminale, i comportamenti inappropriati di Callaghan contribuivano a creare nuova tecnica investigativa e procedurale, se non una differente giurisprudenza.

Roberto: Il film che in questo momento più apprezzo è The Jersey Boys (2014), trasposizione di un musical dedicato alla storia di un complesso vocale doo-wop italo-americano degli anni Sessanta, The Four Season (dal nome della pizza), che nessun cineasta italiano o italo americano aveva mai raccontato. A proposito dell’importanza che ha Clint Eastwood (musicista, prima di tutto, e grande studioso di jazz e di cultura african-american) come ponte tra due culture, questo musical indaga sui fitti rapporti di scambio tra subculture urbane operaie, nere e latine. Il doo-wop è un canto a cappella maschile (non senza uso di falsetto, a imitazione delle voci femminili, fatto piuttosto destabilizzante rispetto a culture iper-maschiliste) che ha origini nel gospel e nel blues metropolitano anni trenta-quaranta. Il quartetto vocale, senza accompagnamento strumentale, ottiene un effetto musicale mimando gli strumenti con sillabe senza senso. Erano anni di combattimento sociale per le due comunità (quella italiana che voleva aspirare al gradino Wasp e quella nera che lottava per i diritti civili) ma anche di grande rispetto riconquistato dalla nostra comunità grazie ai nostri cantanti (come all’epoca di Caruso) adesso super star come Frank Sinatra e Louis Prima.

Mariuccia: The Outlaw Josey Wales (Il texano dagli occhi di ghiaccio) perché è lì che si concentra l’ossessione di Clint per la perdita dell’innocenza. Il suo attraversare l’America sullo sfondo di una Natura divina, secondo le teorie trascendentaliste di Emerson, insieme agli outsider, gli emarginati, rappresenta tutta la poetica di Eastwood.

Eastwood ha ancora qualcosa da raccontare?

Certo e visto che vuole battere Manoel de Oliveira come il più longevo cineasta in attività (il cineasta portoghese è morto praticamente sul set a 106 anni) racconterà ancora molte storie di personaggi in conflitto con il mondo e con il “sogno americano”. La cronaca contemporanea offre una quantità impressionante di avventure che coinvolgono piccoli grandi cittadini che fanno il loro dovere ma sono schiacciati da poteri mostruosi (Sully, Ore 15.17 – Attacco al treno; Il corriere, Richard Jewell, Invictus…). E’ interessante il suo recente spingersi, in Cry Macho, oltre la frontiera, anzi oggi si dovrebbe dire oltre il Muro. Un desiderio di Messico, che va in direzione opposta al flusso dell’emigrazione e al luogo comune che considera ricchezza sinonimo di Pil. La maniera molto fredda con cui il film è stato accolto e ‘giustiziato’ come opera senile dalla critica americana la dice lunga. Clint infastidisce sempre.

Il substrato multiculturale di Clint come si coniuga con la sua visione politica?

Basterebbe vedere Il texano dagli occhi di ghiaccio (The Outlaw Josey Wales) del 1976, ambientato poco dopo la guerra civile americana, e nel quale né i nordisti né i sudisti hanno ragione. Come dicevamo, Eastwood mette insieme una combriccola che rappresenta la nuova America in fieri, fiera della propria “energia transculturale”, composta da un branco di derelitti: il disertore fuorilegge del titolo, un vecchio capo Cherokee, una giovane nativa, un cane e dei poveri pionieri destinati ad essere sopraffatti da banchieri e latifondisti. Il partito repubblicano, a cui il “libertario” Eastwood non è iscritto, ma che molto spesso ha votato (ma in genere più le persone specifiche, come McCain, che il partito) ha ovviamente una tradizione antirazzista nobile (pensiamo a Lincoln o al vicepresidente di Roosevelt Henry A. Wallace) rispetto al partito democratico, fino ai primi anni 60 fiancheggiatore, nel sud, di un razzismo atavico dominante. Pensiamo anche a Frank Sinatra che dopo aver rotto con il partito democratico, alla morte di Kennedy, è diventato sì repubblicano, ma non ha smesso di fare battaglie antirazziste e progressiste. Credo che la linea di discriminazione tra destra e sinistra in Usa non definisca i partiti, a sinistra i democratici e a destra i repubblicani, ma li attraversi. I progressisti sono i non populisti, i non sovranisti, i non “federalisti” di entrambi gli schieramenti. Chi non ha il terrore della plebe “selvaggia” dei senza potere e chi non la blandisce e aizza come fa Trump per interessi privati e abietti. Con “federalista” intendiamo, fin dall’Ottocento, quella componente della borghesia, inguaribilmente filomonarchica, che garantisce alle classi dominanti e al complesso militare industriale il controllo della situazione, anche attraverso apparati istituzionali che impediscano una democrazia sostanziale (leggi e collegi elettorali atipici, controllo senatoriale, Corte suprema, etc.).

Analizzando i suoi film, che visione nuova del cinema abbiamo?

Il luogo comune descrive Eastwood come l’ultimo regista (oltre che attore) classico del cinema americano. Certo, attraverso la lezione di Don Siegel, che ha lavorato con Walsh e Wellman, i segreti dell’arte americana del narrare linearmente alla costruzione e ricostruzione del reale per immagini, tra il 1917 e il 1960, sono stati ben svelati e metabolizzati. Realismo= astrattismo, è Hollywood oltre che Mondrian (già nel 1910). Prendiamo le sequenze iniziali di Un mondo perfetto: non c’è un’inquadratura inutile, ogni immagine è un momento semanticamente giustificato, un tassello necessario ad aggiungere informazioni, un’unità che si lega alle altre secondo un rapporto di azione/reazione, con effetto di progressione drammatica. Però, d’altra parte, il montaggio suscita reazioni liriche, poetiche, enigmatiche, associative, di pura invenzione formale, quasi oniriche… Non si può dimenticare, infatti, che Eastwood è “rinato” come cineasta nell’Italia del neorealismo (che per gli Usa significò soprattutto immagini licenziose e scandalose) e di De Sica (la mistica del budget giusto) e del primo manierismo postmoderno di Sergio Leone, e nell’Europa delle nouvelle vagues e del “neorealismo interiore”, del cinema raccontato in prima persona singolare. Qui, e a Pinewood dove ha appreso l’importanza della tecnologia che alleggerisce il set e il budget, Eastwood ha svolto i suoi studi universitari sull’immagine in movimento. Classico moderno e postmoderno insieme, ecco dunque la sua originalità. Se come attore è un “reattore”, cioè un suscitatore di energia collettiva all’interno dell’inquadratura, allergica al gioco tv del campo/controcampo, come regista è altrettanto un “reattore”. “Niente è nuovo ma tutto è rinnovato nel suo cinema”, come ci insegnava il maestro della critica Giuseppe Turroni. Nei suoi film bisogna essere attenti ai rapporti tra i colori, ai nessi, ai flussi, alle vibrazioni cromatiche e ritmiche. Stile compiaciuto, “formalista”? Mai. Ci ha insegnato a vedere il perché e non il come del Reale.

Il fatto che Eastwood nasca come pianista jazz ha influenzato il ritmo del suo cinema?

Grande appassionato anche di musica country, quella dei proletari bianchi del rust belt, come si vede in Honkytonk Man. Credo, però, che sia stato proprio Charlie Parker a cambiargli la vita – lui, inseguito ovunque da giovane nel jazz club, quando lavorava come pianista nei locali – e a dare ritmi, umorismo e negritude be-bop alle sue forme. Non solo in Bird, ma anche quando ha costruito la sua inimitabile micro-recitazione o quando recupera, senza ricalcare mai, la memoria di ciò che è stato. Come faceva Bird quando amoreggiava o litigava con gli standard. Soprattutto lo ha imitato nell’unicità: perché Eastwood è un attore e regista con idee molto precise in fatto di cinema, con spazi visivi suoi, con ritmi che non possono essere confusi con quelli di altri. Ricordiamo che è anche stato produttore di una serie di documentari sul jazz tra cui quello dedicato a un altro gigante del bebop, Thelonious Monk, Straight no Chaser di Charlotte Zwerin del 1988.

La Malpaso come casa indipendente può essere copiata oggi da altri cineasti indipendenti?

Malpaso è nata alla fine degli anni 60, dopo il ritorno di Eastwood in California, reduce dall’esperienza italiana. Altri registi hollywoodiani, in precedenza, tra i quali Frank Capra, George Stevens, William Wyler e Robert Aldrich avevano cercato di creare società indipendenti, soprattutto dopo che nel 1948 in base alle leggi antitrust il monopolio dei grandi studi di produzione e distribuzione hollywoodiani era stato ridimensionato, perché le gigantesche catene di cinematografi erano state sottratte alle majors. Liberato l’esercizio, nel decennio 50 e 60, film americani non hollywoodiani conquistarono il mercato giovanile con film “sex, drugs and rock’n’roll” o sulle gang motociclistiche. Aldrich possedeva anche gli Studios ma dovette chiudere, per i debiti. Malpaso è riuscita invece a sopravvivere fino ad oggi perché Eastwood è un divo, cioè, riesce a destinare alla produzione dei film che voleva (tutti girati a budget basso o meglio giusto) i suoi alti cachet e la Warner Bros era contenta di avere a disposizione una star “sotto costo”. Molti attori e molti divi oggi possiedono case di produzioni indipendenti affiliate a major. Ma sono progetti basati non sulla storia, sul film, ma su loro stessi. Abel Ferrara è stato costretto a ‘fuggire” in Italia per proseguire un tragitto artistico che non tollera compromessi di sorta. Le nuove tecnologie però oggi permettono di abbassare talmente i costi di produzione che non è improbabile realizzare opere completamente indipendenti. Che però nessuno vedrà. La distribuzione è una fortezza chiusa.

Mariuccia Ciotta, giornalista e critico cinematografico, autrice di programmi radiotelevisivi. Ha scritto saggi e libri su autori e generi del grande schermo, e diretto il quotidiano “Il Manifesto”.

Roberto Silvestri, giornalista e critico cinematografico, conduttore di Hollywood Party. Tra i fondatori del cineclub “Il Politecnico” ha diretto i festival di Lecce, Rimini, Bellaria, Aversa, Cà Foscari, Sulmona e la collana “Illegal and wanted” per Raro Video. Ha ideato e diretto “Alias”, settimanale culturale di “Il Manifesto”.