“Io sono Elisa”: storia di una donna sopravvissuta alla violenza, dalla nascita … o anche prima

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Scriveva Bifulco nel 1998: “Per un bambino il primo punto di riferimento al mondo, sono i genitori, in particolar modo la madre. Attraverso questo contatto impara a identificare sé stesso come un individuo, a relazionarsi al mondo esterno e comincia ad esplorare l’ambiente con sicurezza”.

È evidente che il rapporto con la madre, getti le basi per lo sviluppo della personalità del bambino e della sua relazione con gli altri. Non vi è figlio o figlia che, in una certa fase della propria vita, non tragga ispirazione dall’esempio genitoriale. Quanto è importante, dunque, che i genitori sappiano essere luce che illumina i passi dei propri figli, autorevoli padri e madri capaci di infondere quella necessaria e giusta dose di fiducia e sicurezza capaci di forgiare la personalità delle creature a cui hanno conferito, un giorno, il dono della vita.

La scrittrice Adelaide Camillo ha raccontato la storia di Elisa Zingaro, donna sopravvissuta alla violenza a partire dalla nascita o anche prima.

Il libro “Elisa… a piedi nudi nell’ anima” è un progetto editoriale prodotto e realizzato dalla Pav Edizioni in collaborazione con l’avvocato matrimonialista Pierpaolo Damiano esperto nelle tematiche relative alla violenza di genere.

La storia di Elisa, residente in un paese della provincia di Brindisi, è reale ma è stata raccontata con la sola finalità di dare un messaggio di speranza in merito al cambiamento e la delicatezza ed estremo rispetto della scrittrice nei confronti della protagonista e di tante donne, le ha impedito di raccontare nel dettaglio delle vicende dolorose, che potevano suscitare un sentimento di pietà.

Elisa è riemersa, è rinata grazie al fatidico giorno in cui si dice STOP, non si può andare oltre, quella forza quasi sovrumana di mollare e ricominciare gliela insegna la sua prima figlia, nata dall’unione con quell’uomo. La sua maternità è viscerale, sanguigna ed ha occhi solo per la sua bambina, una madre amorevole e degna che ha scelto di perdonare colei che l’ha messa al mondo e di mettersi al servizio di altre donne avviate a percorsi di consapevolezza.

Elisa ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande.

Sfogliando le pagine del tuo libro abbiamo provato un senso di smarrimento: per tutti i bambini, avere accanto la figura di due genitori sufficientemente amorevoli, che credono in te, che ti spronano e ti supportano nella crescita, è alla base della vita, ti aiuta ad affrontare le asperità che inevitabilmente si presentano. Quali emozioni provi rispetto a questo cordone ombelicale mai esistito e a questo senso di solitudine che ti ha accompagnata per tutta la vita?

Il legame più intimo e profondo e vitale che un cordone ombelicale crea, per me è stato a lungo inconsciamente sconosciuto. Ne ho potuto capire il vero significato solo quando sono diventata mamma e ho cominciato a prendere coscienza di un qualcosa che mi è sempre mancato: l’amore di una mamma. Il senso di solitudine mi accompagnerà per tutta la vita e cerco di nutrirlo alimentandomi di pensieri positivi valorizzando me stessa nel corpo e nell’anima. La solitudine è una cicatrice e quindi un segno che rimarrà per tutta la vita; ho curato la ferita che mi ha lasciato questo taglio profondo nell’anima e lascio respirare le mie qualità e pregi per anni soffocati.

Chi era Elisa ieri e chi è oggi?

Ieri, Elisa era sola, abbandonata a sé stessa, ferita e in cerca d’amore. Oggi Elisa non si sente più sola e ha una grande responsabilità: amare sé stessa. Ha preso per mano quella bambina ferita e se ne prende cura ogni giorno.

Quali sono i sentimenti che provi nei confronti di tua madre o come dici tu “colei che mi ha dato un passaggio nell’utero”?

Che sentimento potrei provare per mia madre? Odio? Assolutamente no! L’odio è un sentimento negativo ed è un qualcosa di astratto a cui solo noi possiamo dare un peso ed io ho scelto di non farlo. Ho scelto il perdono e la gratitudine perché devo ringraziare solo lei se oggi sono qui. Per anni ho cercato e preteso il suo amore, donandole il mio; inconsciamente davo a lei ciò che avrebbe dovuto dare a me, mi sono messa nei suoi panni ma lei non si è mai messa nei miei. Mia madre non conosce il vero significato della parola amore, non ha avuto quell’istinto naturale che contraddistingue noi donne e mamme. Non la colpevolizzo perché anche lei ha avuto un passato difficile, ma con questo non posso giustificarla ed è per questo che oggi sono fredda e indifferente nei suoi confronti.

La violenza ha varie forme e tende a ripetersi nel tempo anche se cambiano gli ambienti, le persone, a volte l’intero contesto in cui si vive; come mai, secondo il tuo punto di vista, hai la sensazione che si entri in un tunnel e che difficilmente se ne esca?

Si, hai la sensazione di entrare in un tunnel, un tunnel buio. Sai benissimo che c’è la via d’uscita ma raggiungerla è difficile. Tanti fattori possono ostacolarti: l’età, la dipendenza economica, la dipendenza affettiva, la responsabilità di essere un genitore, l’abitudine, i pregiudizi, i sentimenti, le emozioni, le percezioni…

La molla, la goccia che fa traboccare il vaso, il grande STOP alla violenza, come si raggiunge?

La violenza si nutre di sentimenti negativi come l’odio o la rabbia; è una forza incontrollata, un’azione volontaria e quindi il grande stop per me si raggiunge imparando ad amare sé stessi sin da piccoli e quindi riuscire ad amare gli altri.

I dati sulla violenza sono allarmanti, i dati sui femminicidi sono vergognosi, certamente non basta indossare le scarpe rosse o fare convegni in cui gli esperti discutono, nella pratica, cosa dovrebbe essere fatto?

Io sostengo che la violenza non è a senso unico. Ai “dati” sulla violenza, “dati” sui femminicidi, aggiungo “dati” sui figlicidi e maschicidi. Queste tragedie che spesso si consumano nel silenzio, sono molte di più di ciò che si immagina, si ascolta o si legge, e c’è molto da fare in termini di supporto psicoeducativo alla società. Bambini piccolissimi, adolescenti, madri, padri… cancellati come un file, cestinati per essere dimenticati. “Un mese fa è stato ucciso un ennesimo figlio dal padre”, questa è la chiara manifestazione non solo di un disagio e   malessere ma della demolizione e del crollo della capacità di assunzione di responsabilità degli adulti. Emerge una sofferenza psichica, sociale e educativa, che se davvero sostenute potrebbero modificarsi positivamente. Urge la necessità di sostegno, di ascolto, rieducazione sociale e formazione con interventi di sensibilizzazione soprattutto nelle scuole di ogni ordine e grado, alla genitorialità fragile (smettere di etichettare una mamma come una “madre di un minore” e smettere di etichettare un papà come “padre di un minore” e mi riferisco alle istituzioni, è fondamentale anche l’utilizzo delle parole. Basta etichettare solo l’uomo violento, un bambino che nasce, cresce e ascolta questo stereotipo, al 99% diventerà un adulto violento. Basta alla violenza istituzionale che ancora oggi tante mamme subiscono anche dopo la formale denuncia. Fondamentale è dare un messaggio positivo ma mi sento comunque di consigliare sempre la denuncia e chiedere di entrare in una rete di protezione immediatamente senza se e senza ma.