Il fiele dell’addio

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Amore perdutoLa spiaggia è vuota.  Se ne sono  andati  gli ultimi turisti, il bar ha le porte chiuse con lucchetti definitivi, le ombre scendono corte alle spalle degli stecchi di legno che bimbi instancabili hanno usato  come porte di campetti di calcio improvvisati.

La linea dell’orizzonte è nitida e divide due azzurri che non riesco a descrivere.

Più in là ci sono le barche, poche, di qualche pescatore non rassegnato all’autunno ormai inoltrato.

Il mare è placido, sembra olio, giunge fino a riva con dolcezza e torna lentamente indietro. Sembra che canti la ninna nanna al mondo.

Uno scenario che si ripete da sempre. La vita di agosto appare lontana anni luce, ma paradossalmente i cespugli sulle dune pullulano di energia nuova e il mare gode di rinnovate promesse. I pesci nuotano liberi e felici. Non ci sono invasori, né nemici da cui difendersi.

Non c’è vento, meglio così.

Un paesaggio che è cartolina. Non è un caso che io sia qui.

Tu ed io. Finalmente insieme. Abbiamo desiderato di trascorrere uno spazio solo nostro da tanto tanto tempo. Eccoci qua. Emozionati, increduli, felici. Noi e un pezzetto di mondo che è parte della nostra lunghissima storia d’amore.

Niente più paura, nessuna riserva, nessun occhio indiscreto pronto a sbranarci. Chiusi in una nicchia consapevole e dorata. Un amore che passa di status. Amore che si legge, che si immagina, che finalmente ritorna, si realizza, vive e urla. Si concretizza con occhi che annegano nel cuore dell’altro, con mani che toccano reciprocamente quei corpi mille e mille volte sognati, con parole troppo a lungo taciute o riferite dai cuori e portate dal vento. Amore che per respirare aveva bisogno di palesarsi materialmente.

Amore testardo, che ha sopportato le umiliazioni di molteplici solitudini, che ha scavato silenziosamente un abisso tra noi e il mondo reale. Ferito da silenzi incomprensibili, sedotto da lusinghe vane. Cresciuto nel petto di innumerevoli respiri muti che volevano gridare all’universo una sorta di dolore senza nome. Amore portato in giro per strade bucate, sofferenti, assolate, polverose, raramente lisce o pianeggianti. Amore impervio e imperituro.

Non è facile vivere di fantasia, prendere una parola e trasformarla, arricchirla di centinaia di farneticazioni che ti portano ad un passo dalla follia; andare a bussare alla memoria del cuore e ritrovare in un attimo l’odore della tua pelle, le sfumature del tuo sorriso, l’ombra infinita dei tuoi occhi che mi guardavano mentre eri dentro di me.

Il mio letto era diventato immenso intanto che t’aspettavo.  E avevo freddo. Io che ero convinta che accanto a te non avrei avuto freddo neppure se avessi camminato nuda in qualunque angolo del mondo.

Io che camminavo senza meta in cerca di te. Ovunque. In chiunque.

Ho spesso pensato che la morte possa aiutare a rassegnarsi. Ma i distacchi forzati no. Quelli possono uccidere l’anima. Che è peggiore della morte del corpo.

Le tue parole, i tuoi “sei bellissima” pronunciati da lontano, come se uno stupido aggettivo potesse saziare una fame devastante e annullare anni di lacrime insensate piante caparbiamente.

Raccontata così, sembrerebbe una storia a senso unico. Ma così non è, e tu lo sai bene. Non era sesso, non era quotidianità, non era morbosità, non era arricchimento. Non era amore.

Forse era solo un sogno. Da vivere dormendo e da svegli. Mille scene in una sola. Il tuo volto. I tuoi occhi, la tua voce.

Un sentimento spesso patetico. Il mio.

Il tuo, invece, è stato solo gioco. Cattivo. Speso sulla pelle di chi con un’idea infantile credeva che tu fossi la metà assegnata in questo mondo da un destino burlone. L’altra metà del mio cielo.

Vorrei possedere l’eleganza dei freddi, per poterti salutare con distacco e senza emozione.

Vorrei poterti non pensare mai più. E rinascere a nuova vita, con altre prospettive da immaginare, stendendo una coltre di cemento su di te e sui tuoi passi, sulla luce che ci ha accompagnati nei brevi momenti che abbiamo trascorso insieme, una nebbia totale ad augurare il buon giorno a un giorno nuovo. E ricordi che non seguono più la scia della tua esistenza. E mai più domande né follia. E non sentirti mio, che lo sei stato solo nella mia mente.

È scesa la sera sulla spiaggia. Tu hai gli occhi lucidi di chi prova un certo dispiacere mentre ascolta parole d’addio.

Dimenticherai in fretta, lo so.

Ma io mi auguro che non sia così. Io vorrei vederti soffrire. Piangere. Immalinconirti. Pensare al male che mi hai fatto e non riuscire ad andare via da noi.

E vedermi mentre tremo. E sentirmi mentre, piangendo, ti maledico. Per aver preso il mio amore ed averne fatto un macabro gioco.

Non ti porterò un’altra volta sulla nostra spiaggia. Quella che tu non hai mai visto. Quella dove ti ho tenuto stretto a me infinite volte. Dove ti ho solo immaginato.

Forse continuerò ad essere per te l’amore che si legge. Tu per me sarai l’amore che si odia.

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