Cassandra

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Nella sua casa anacronistica, regno del kitsch, Cassandra dipingeva quadri. La luce diafana di mezzogiorno entrava dalla finestra aperta , invito per mosche curiose e per creature attratte dall’odore acre della vernice. La musica di canzoni consumate che ormai nessuno ascoltava più, faceva da accompagnamento al tocco del pennello sulla tela e al rimpasto dei colori sulla tavolozza.

 

Il profilo morbido del suo corpo rivelato dall’abito leggero colpito da un generoso raggio di sole.

Cassandra dipingeva più per vivere che per sopravvivere. Le sue tele erano tutte testimonianze di momenti preziosi della sua vita e non sopportava che qualcuno, guardandole, vi ritrovasse qualcosa di sé. Non riusciva ad essere con la sua vita così generosa come in amore.

La stanza era piena del suo passato. Un passato che le aveva donato tanto e si era ripreso tutto, come il vento che prima fa scivolare la barca fino all’orizzonte e poi si trasforma improvvisamente in un nemico aggressivo e distruttivo.

Aveva conosciuto Roberto a trentadue anni. Era andata in piscina come ogni lunedì. Aveva indossato il costume, la cuffia, gli occhialini e si era tuffata nell’acqua tiepida .

Le piaceva l’odore aspro del cloro. La riportava indietro nel tempo quando andava a nuotare con suo padre e facevano gare che puntualmente vinceva sotto lo sguardo compiaciuto e fiero del suo maestro, dal quale aveva ereditato l’amore per l’acqua.
Aveva nuotato il tempo necessario per effettuare venti vasche, non una di più, non una di meno. Era ossessionata dal numero cinque: tutto quello che faceva doveva farlo un numero di volte pari o multiplo di cinque.

Quando uscì dall’acqua lui era in piedi sul bordo e le porgeva l’accappatoio. Lo guardò, sorpresa da quel gesto morbido e spontaneo che lei inizialmente intese come una spregiudicata violazione della sua intimità ma che accettò senza repliche.
Lui la fissò prima negli occhi e poi posando lo sguardo lussurioso sul suo corpo tremante per il freddo e per lo strano desiderio che la colse di sorpresa.
Era come se entrambi avessero deciso di mettere da parte gli inutili fronzoli delle convenzioni e avessero deciso di cominciare a correre da metà percorso.
Roberto attese pazientemente Cassandra, fuori, nel freddo pungente di un insolito pomeriggio di febbraio e insieme andarono a casa di lei.

Nel tempo di un caffè preparato e consumato in fretta si erano presi l’uno la vita dell’altra , l’uno nel corpo e nell’anima dell’altra. 

Il giorno seguente Roberto ritornò da lei con una grossa valigia nella quale c’era tanto poco del suo passato quanto abbondanza del suo futuro, perché Cassandra scorgeva in quegli oggetti non il ripetersi di logori gesti quotidiani ma il seme della vita che avrebbero trascorso insieme. Felici, lontano dal mondo, dalla gente, dalle voci, dai pregiudizi, dagli affanni, dal freddo, dalle stagioni che si rincorrono senza prendersi mai, dal tempo che avanza e non lascia che vuoti ricordi e tristi addii. Loro due in quella casa senza regole e senza bellezza se non quella pura, assoluta, essenziale della passione che vi si sarebbe consumata.
Avevano trascorso gli anni amandosi come nessuno, adottando la linea di un’intimità esasperata che li portava a compiere ogni gesto in presenza dell’altro, perfino quelli più connaturati e ancestrali. Senza segreti. Senza futili e puerili pudori.
Cassandra amava il suo uomo con la stessa passione di quella prima volta, quando tutto doveva essere ancora scoperto, conquistato, conseguito, meritato , offerto,e restituito.
Il loro era un amore parossistico, surreale eppure più vero della verità stessa, più puro della purezza, più perfetto del numero cinque.

Poi arrivò il maledetto giorno che per Cassandra era ancora domenica e per Roberto era già lunedì.

L’amara confessione arrivò in una torrida mattina di luglio e il sudore sulla sua pelle si trasformò in gelida rugiada.

C’era stata un’altra piscina, un altro accappatoio impudicamente offerto e un altro caffè velocemente preparato e consumato. Un caffè nuovo. Più caldo. Più fragrante.
Cassandra ascoltò, ricacciando indietro e ingoiando ogni singola lacrima che scivolava lungo la gola ustionandole l’anima. Nessuna smorfia del viso, nessun brivido improvviso, nessun battito scomposto delle ciglia tradiva la ferma volontà di non assoggettarsi al dolore e di non obbedire alla voglia di gridare, di gettarsi al collo del traditore, di rompere piatti, di fare a pezzi quegli anni vissuti nell’illusione di un amore perfetto e unico.
Rimase immobile guardandolo fisso negli occhi , quegli occhi voluttuosi che ora si posavano su un altro corpo … Perché c’era una sola cosa più grande del dolore, più potente dell’istinto, più lucida della vendetta : la dignità.
Sapeva bene di non poter competere con l’affascinante richiamo di una nuova promessa, di un avvenire tutto da costruire, di quelli che ammaliano come sirene il viandante sprovveduto.
Lo guardava e dentro urlava.
vigliacco! vattene, va’ da lei. va’ a respirare l’odore del suo sudore, delle sue feci, della sua bocca … nutriti di lei, prenditi la sua la vita, consumala e poi gettala via. gettala quando e’ troppo facile trovare altre strade da percorrere … l’amore non e’ una ginestra che cresce nella roccia senza radici e che dura il tempo di un giro di walzer. illuso, sciocco, non hai capito che l’amore è un timido fiore di campo che devi curare, nutrire, dissetare e fargli mettere radici … và .và dalla tua ginestra e non tornare mai più!
– Prendi le tue cose e porta la tua fottuta vita lontano da me!-
Si voltò di spalle e pianse, in silenzio.
Erano stati cinque anni, cinque mesi e cinque giorni di felici follie. Ed erano bastati cinque minuti per mandare tutto a puttane.
Nel preciso istante in cui Roberto andò via Cassandra sapeva che l’avrebbe perdonato se un giorno fosse tornato da lei. Ma doveva supplicarla … almeno cinque volte. Perché lei aveva dato un senso profondo alla sua vita, lo aveva curato quando stava male, lo aveva sorretto quando incespicava nella sua stessa esistenza, gli aveva insegnato la purezza di una sensualità senza confini … e questo non può essere cancellato in un misero attimo di inutile rancore e nell’impeto di un orgoglio che non le apparteneva.
Aveva amato ancora?

Sì, aveva amato. Molte volte. Ma in un modo nuovo, egoistico: donava il suo amore alla mattina e se lo riprendeva alla sera. Nessuna logora valigia con vuoti passati e futuri da colmare … E solo di domenica.

Immerse il pennello nel solvente, posò la tavolozza e si allontanò dal cavalletto.
Chinò il capo prima a destra poi a sinistra cercando un punto di osservazione sincero . Annuì soddisfatta. La quinta pagina di diario era stata scritta anche quella notte.
Si avvicinò alla finestra , spalancò le braccia prendendo i due battenti tra le mani e inspirò profondamente. Cinque volte.
Al piano disotto qualcuno faceva bolle di sapone che salivano fino a lei offrendole infiniti arcobaleni.
Erano le dieci e venticinque quando suonò il campanello. Andò alla porta e l’aprì.
Roberto era lì, con il suo sguardo bramoso di redenzione e il mazzetto di fiori di campo tra le mani.
Prepararono un caffè e lo consumarono velocemente. Sì. Era ancora domenica, ancora, solo e sempre … Per entrambi.
Qualunque donna al suo posto avrebbe vestito i panni della vittima sacrificale e sacrificata. Cassandra no. Lei aveva vinto. Aveva vinto perché nessuno è più tuo di chi rientra nella tua vita dopo la schiavitù e nella libertà scopre una prigionia più soffocante, asfittica ma irrinunciabile.
Aveva imparato a dialogare con il vento, a governarlo nella tempesta ed ora la sua vita scivolava fino all’orizzonte. E lei decideva la rotta.

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